Sotto la spinta del motore a biovole la piccola Argo solcava gli spazi di un universo a prima vista euclideo.
Dopo alcune sbandate e spericolate manovre di correzione in coda ora la nave sembrava filare quasi normalmente, a parte un residuo fastidioso rollio. Il salto era stato violento, nonché del tutto fuori programma: così il Comandante Jason Velasco della Flotta Astrale della Prima Repubblica Galattica (che sarei io) pensò di dover redarguire il responsabile del mancato disastro.
— Lo ammetta Tenente, le complicazioni meta-relativistiche non sono mai state il suo forte, eh? No, la smetta pure di brontolare, non ci sono scuse, ringrazi piuttosto per tutte le cattive parole che non, sottolineo ‘non’, ho messo nei miei rapporti… E adesso veda di portarci da qualche parte.
Non avevo voluto essere troppo severo col signor Suru, Ufficiale di Rotta e compagno di vecchia data, la cui proverbiale sbadataggine ci aveva regalato in tanti anni incredibili avventure: avventure che nelle fiacche missioni di routine non avremmo mai conosciuto. Con un brivido ripescai nel fondo della memoria i sargassi di Finis Terrae e le sirti di Crab Nebula, rividi le simplegadi in Deneb IV, in Orione le polveri dissolventi, in M38 la terribile maestà delle nubi di Markarian… Argo aveva solcato universi inimmaginabili.
Le prime rilevazioni strumentali ci riservarono non poche soprese: quell’universo pareva consistere di un solo sistema planetario circondato da numerosissime luci puntiformi di aspetto stellare, ma di natura ancora ignota, situate ai suoi ultimi confini. Il signor Suru, visibilmente imbarazzato, calcolò alla meglio una rotta e presto ci trovammo a procedere verso il centro di quel sistema.
Cosmogonie assurde, universi impensati, mondi cercati a lungo e invano, e per caso trovati nell’Infinito Esistente… Tutto questo Argo aveva conosciuto. Nel Terzo Settore ammirammo la nascita di un nuovo universo, nel Settimo assistemmo alla lenta agonia di un altro. Altrove, ormai ai nostri limiti, ci imbattemmo in una sistema a piani paralleli; ai suoi antipodi in una struttura a sfere intersecanti; e qui intuimmo la sicura esistenza di irraggiungibili universi iperbolari. Mondi impossibili, come gli universi bidimensionali dove cielo e terra non si distinguono; mondi impensabili, come gli universi iperdimensionali; o ancora, mondi incredibili, come i sistemi dotati di dimensioni non intere, fluttuanti fra l’essere e il non essere…
Intanto una messe di dati si riversava senza sosta dagli strumenti agli elaboratori, e il nostro sconcerto aumentava: immagini più dettagliate di quel sistema ci mostrarono le facce di sette pianeti e di un sole in tutto simili a quelle che ci erano fin troppo note; e non tardammo a scoprire che quelle lontanissime luci, di apparenza stellare ho detto, tracciavano disegni siderali che nessuno avrebbe saputo distinguere dalle nostre mitologiche costellazioni. L’innata curiosità dell’animo umano ne era piacevolmente stuzzicata, una vaga euforia pervadeva la nave mentre tutti sedevano ai propri posti in attesa di…
Non so davvero come potesse affacciarsi alla mia mente quell’eventualità pazzesca, vorrei dire assurda se non fosse che invece fu del tutto reale. Balzai sugli strumenti direzionali, senza dire parola: non c’era tempo per impartire ordini, forse era già troppo tardi, la velocità era tanto alta da rendere impossibile l’arresto subitaneo della nave; e così, mentre il signor Suru protestava debolmente ed il co-pilota lamentava una gomitata nell’occhio, io immettevo Argo nella traiettoria di un'interminabile tonneau, sperando che l’inversione di rotta cominciasse in tempo… in tempo per evitare il cielo di Saturno!
La dea bendata ebbe il buon gusto di non tradirci: avevamo ormai piegato di novanta gradi quando urtammo a prua, dove si trova la plancia di comando, e subito dopo a poppa, però solo di striscio. Fummo sballottati per bene, ma a parte la paura e qualche bernoccolo non c’era proprio da lamentarsi: a una prima sommaria ricognizione potemmo constatare che lo scafo era sostanzialmente intatto, forse qualche ammaccatura, e i due reattori funzionavano senz’altro. Più tardi però ci accorgemmo che alcune delle biovole dei propulsori si erano liquefatte, non capii bene perché; che altre erano fuori posto, ma che i verità i danni più gravi si erano verificati ai razzi direzionali anteriori, il che rendeva la nave poco manovrabile. Inoltre alcuni computers cominciarono a dare i numeri.
— Non c’è da fidarsi troppo, non sono affidabili. E senza meta-coordinate certe, non possiamo esporci ai rischi di un salto dimensionale: potremmo finire ovunque — sentenziò quasi con indifferenza il Tenente Manfred Kano, Ufficiale Cibernautico.
— Dimentica, signor Kano, che questi rischi li corriamo piuttosto spesso — ribattei io — non è vero, signor Suru? — e, girandomi sulla poltrona di comando, incrociai lo sguardo colpevole dell’Ufficiale di Rotta. — Comunque ha ragione, Kano: ci troviamo già in qualche angolo di questo ovunque e non è il caso di complicare ulteriormente la situazione.
Intanto, collocata Argo in un’orbita di parcheggio intorno al centro del sistema, vedevamo campeggiare nel grande schermo della plancia di comando le immagini dei due pianeti più interni, ripresi dal telescopio di bordo. — Guardate un po’ se non sembrano la Terra con la Luna! — borbottò qualcuno alle mie spalle. Mi riservai qualche minuto di riflessione, e infine decisi che saremmo scesi su quel pianeta dove avremmo potuto riparare i guasti con calma: questo è ciò che esposi ai miei Ufficiali, ma in realtà soprattutto curioso.
Un buon tre quarti dell’equipaggio non immaginava neppure lontanamente cosa poteva esserci capitato. Constatai con vergogna che ben pochi di loro avevano conoscenza delle antiche cosmogonie: solo tre o quattro uscivano dall’ignoranza più buia e si spingevano sino alle prime cosmologie relativistiche, con qualche barlume di gravitazione universale newtoniana e nulla più. Empedocle, Lucrezio, Dante Alighieri, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Bernardino Telesio, Copernico e Keplero, Spinoza e Leibniz erano per il mio encomiabile equipaggio nomi privi di significato. Giordano Bruno, al pari di Tommaso Moro e le streghe, era ricordato da alcuni quale vittima esemplare della crudeltà dell’antica Chiesa Cattolica. Qualcuno aveva sentito nominare Cartesio, per gli assi che portano il suo nome; e un buon numero conosceva Galileo solo per averlo visto recentemente in uno sceneggiato cosmovisivo. Nessuno conosceva Aristotele, né tantomeno Tolomeo.
— Insomma Comandante, cosa diavolo è quel muro là fuori? Per poco non finivamo a pezzi, ma le sonde non davano un accidente e…
— Si calmi, Guardiamarina Grubert, il diavolo non c’entra perché si tratta semplicemente di quintessenza — breve pausa ad effetto, poi ripresi: — Certo, una banalissima, enorme bolla di quintessenza. O etere, se preferite.
Mi fermai quando cominciai a leggere nei volti dei miei uomini l’intera gamma di espressioni che vanno da “capire niente” a “sorpresa di fronte a un pazzo insospettato”. Ferito nell’orgoglio assunsi un tono meno acquiescente e imposi il mio superiore sapere, di cui soprattutto Jacob Peanus e Rodolfo Redi − rispettivamente fisico e medico di bordo − parevano dubitare.
— So benissimo, Professor Peanus, che la quintessenza non compare neppure sulla più aggiornata Tavola dei Meta-Elementi. Disgraziatamente codesta tavola, come anche lei dovrà ammettere, ha il difetto non proprio trascurabile di tenere in conto solo gli universi noti, ma non tutti gli universi possibili… E, come lei dovrebbe sapere, il primo postulato della meta-fisica afferma questo: tutto ciò che è concettualmente possibile, da qualche parte realmente esiste — conclusi in tono decisamente cattedratico; mentre il Professor Peanus e il Dottor Redi, superate le perplessità iniziali, annuivano l’uno rivolto all’altro.
Insomma, per farla breve, dovetti subire l’umiliazione di raccontare per filo e per segno la storiella dei quattro elementi più quintessenza, delle sfere concentriche, dei pianeti incastrati nelle sfere − il che si rivelò uno scoglio concettuale quasi insuperabile − della musica celestiale, delle superne rote eccetera eccetera; perfino alcune nozioni fondamentali di filosofia presocratica. Quanto al concetto di centralità della Terra nel Cosmo, li vidi incerti se scoppiare a ridere senza pudore oppure arrendersi alle difficoltà di un universo da barzelletta.
— Se ciò può rassicurarvi un poco — feci allora Peanus, — questo universo non è esattamente aristotelico, dal momento che il principio d’inerzia sembra valido anche qui.
In poco tempo raccogliemmo una mole di dati sufficiente a costruirci una rappresentazione abbastanza precisa di quell’universo: il Professor Peanus e il signor Kano si erano davvero prodigati senza risparmio di energie, e quando infine mi presentarono addirittura un modellino cosmologico in scala completo di ogni corpo celeste − Argo compresa − non potei fare a meno di congratularmi con loro e dimenticare l’umiliazione che avevo dovuto subire soltanto poche ore prima.
— Vedete, cerchi perfetti — spiegava il Professor Peanus di fronte al mio equipaggio, ancora per metà incredulo, che probabilmente solo allora di fronte a qualcosa di tangibile riusciva a comprendere per davvero le mie improvvisate lezioni di Storia della Cosmologia. E mentre lo scienziato, ormai saldamente convertito alla nuova dottrina, catechizzava il popolo ignorante della mia nave, io osservavo il modellino e riflettevo sulla singolare struttura di quell’universo: era impossibile, viste analogie e rassomiglianze, non battezzare quell’astro ‘Sole’ e quei pianeti ‘Terra’, ‘Luna’, ‘Venere’ ecc. fino a ‘Saturno’: ovvero i corpi celesti noti all’uomo fin dall’antichità perché visibili ad occhio nudo. Il sistema era identico a quello proposto secoli fa dall’astronomo greco-alessandrino Claudio Tolomeo: un universo, dunque, che era la materializzazione di un pensiero; un po’ come avviene in quelle classi di universi olografici dove la realtà − ammesso che ancora la si possa così definire − convive con le proiezioni mentali.
Ad accrescere le mie perplessità c’era poi un piccolo particolare che risultava tuttora inspiegabile. Stando ai nostri rilevamenti le orbite dei due pianeti più vicini al Sole – Mercurio e Venere – dovevano necessariamente incrociare quella del Sole intorno alla Terra: ciò significava in pratica che i cieli di Mercurio e Venere dovevano intersecare il cielo del Sole. Come era possibile? Forse la legge dell’impenetrabilità della materia non valeva per la quintessenza? Non ricordavo proprio come Tyge Brahe avesse risolto la questione, né a dire il vero se vi avesse mai posto attenzione. E poi i pianeti come facevano a…
Ero così immerso nelle mie divagazioni quando la voce graziosa di Emma Grubert, Guardiamarina alle Comunicazioni, solleticò il mio udito: — Ma Comandante, come faremo ad andare di là? — Delle sue parole avevo colto più il suono che il significato, e poi ero sul punto di afferrare un pensiero che mi pareva importante; così, distrattamente, le chiesi di precisare cosa intendesse con “di là”. — Ma di là, oltre il cielo di Saturno — ella chiarì, esaminando sconcertata il modellino.
Erano le prime parole sensate che sentivo pronunciare dal mio deplorevole equipaggio. Che stupido! E pensare che solo poco ore prime stavamo per sfracellarci contro il cielo di Saturno… Come avevo potuto trascurare adesso questo insignificante dettaglio, e cioè che per raggiungere la Terra avremmo dovuto oltrepassare non una, ma bensì sette di quelle impenetrabili sfere?
Avremmo potuto forse aprirci un varco con la potenza di fuoco di Argo, ma esitavo: chissà quali squilibri cosmici avremmo potuto innescare. Oltretutto quegli involucri d’etere si facevano beffe delle nostre sonde, erano talmente invisibili che non sapevamo con esattezza dov’erano se non sbattendoci il naso… Senza conoscerne la struttura sub-meta-atomica non sapevamo proprio che fare. Per consolarmi pensai che forse quelle sfere erano comunque inattaccabili; che probabilmente non potevamo conoscere nulla più della loro struttura, poiché niente si può dire della quintessenza se non che è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza e così via. Ma non mi sentii un gran che sollevato.
Insomma, eravamo bloccati: avanti non era possibile andare, indietro neppure, saltare nemmeno. La gaiezza che si era propagata nell’equipaggio svanì d’un botto.
— Aristotele ha detto, Comandante? — grugnì il Professor Peanus, tirando fuori una delle sue più brutte espressioni. — Bella situazione, mi lasci dire. Senz’altro.
— Lasci perdere Aristotele, Jacob. Se proprio si vuole un capro espiatorio, proporrei il signor Suru — buttai lì per scherzo, con un sorriso, un po’ per sdrammatizzare, ma qualcuno cominciò sul serio a guardar storto l’Ufficiale. — Via, non facciamo i bambini. Abbiamo navigato anche in acque peggiori, devo ricordarvelo? E ce la siamo sempre cavata! Ai vostri posti ora, e vedrete che una soluzione salterà fuori. — Comandante di un asilo nido, ecco cos’ero, sono belle soddisfazioni.
Dopo un paio d’ore di accese discussioni avevamo quasi esaurito le idee.
Una delle proposte apparentemente più interessanti nasceva da questa osservazione: le orbite delle comete, fortemente ellittiche, dovevano necessariamente intersecare le sfere dei pianeti, ma poiché queste ruotavano, ciascuna sfera doveva mancare di un’intera fascia equatoriale per consentire il passaggio delle comete; e attraverso questa fascia anche Argo sarebbe passata. Tuttavia, mentre già l’equipaggio si abbandonava ai festeggiamenti, il Professor Peanus fece la sconcertante rivelazione che le comete… non esistevano, o meglio, che erano semplici intensificazioni di luminosità nel cielo delle stelle fisse, ultimo confine di quel cosmo. E ciò conformemente allo spirito degli antichi sistemi cosmologici, come quello ticonico, che non accettavano l’idea di corpi celesti in orbite che non fossero rigorosamente circolari…
Ma i satelliti? I satelliti planetari, orbitando attorno all’astro principale, dovevano pur attraversarne la sfera in determinati punti fissi, in ciascuno dei quali era ragionevole supporre l’esistenza di una sorta di varco!… E invece no. Presto capimmo che − similmente al caso di Mercurio e Venere in rapporto al Sole − il cielo portatore di un satellite intersecava sì quello del pianeta principale, ma senza lasciare varchi, come farebbe una lama affilatissima in un pane di burro; e quanto al corpo stesso del satellite, evidentemente era dotato di una non meglio definibile compatibilità con le sfere, che consentiva ad essi − e non a noi − di oltrepassarle. Probabilmente la quintessenza di cui erano costituite le sfere non andava intesa come materia in senso stretto, quanto piuttosto come un addensamento di campo, in grado di allentarsi elasticamente nell’interazione con un corpo celeste…
Dopo alcune sbandate e spericolate manovre di correzione in coda ora la nave sembrava filare quasi normalmente, a parte un residuo fastidioso rollio. Il salto era stato violento, nonché del tutto fuori programma: così il Comandante Jason Velasco della Flotta Astrale della Prima Repubblica Galattica (che sarei io) pensò di dover redarguire il responsabile del mancato disastro.
— Lo ammetta Tenente, le complicazioni meta-relativistiche non sono mai state il suo forte, eh? No, la smetta pure di brontolare, non ci sono scuse, ringrazi piuttosto per tutte le cattive parole che non, sottolineo ‘non’, ho messo nei miei rapporti… E adesso veda di portarci da qualche parte.
Non avevo voluto essere troppo severo col signor Suru, Ufficiale di Rotta e compagno di vecchia data, la cui proverbiale sbadataggine ci aveva regalato in tanti anni incredibili avventure: avventure che nelle fiacche missioni di routine non avremmo mai conosciuto. Con un brivido ripescai nel fondo della memoria i sargassi di Finis Terrae e le sirti di Crab Nebula, rividi le simplegadi in Deneb IV, in Orione le polveri dissolventi, in M38 la terribile maestà delle nubi di Markarian… Argo aveva solcato universi inimmaginabili.
Le prime rilevazioni strumentali ci riservarono non poche soprese: quell’universo pareva consistere di un solo sistema planetario circondato da numerosissime luci puntiformi di aspetto stellare, ma di natura ancora ignota, situate ai suoi ultimi confini. Il signor Suru, visibilmente imbarazzato, calcolò alla meglio una rotta e presto ci trovammo a procedere verso il centro di quel sistema.
Cosmogonie assurde, universi impensati, mondi cercati a lungo e invano, e per caso trovati nell’Infinito Esistente… Tutto questo Argo aveva conosciuto. Nel Terzo Settore ammirammo la nascita di un nuovo universo, nel Settimo assistemmo alla lenta agonia di un altro. Altrove, ormai ai nostri limiti, ci imbattemmo in una sistema a piani paralleli; ai suoi antipodi in una struttura a sfere intersecanti; e qui intuimmo la sicura esistenza di irraggiungibili universi iperbolari. Mondi impossibili, come gli universi bidimensionali dove cielo e terra non si distinguono; mondi impensabili, come gli universi iperdimensionali; o ancora, mondi incredibili, come i sistemi dotati di dimensioni non intere, fluttuanti fra l’essere e il non essere…
Intanto una messe di dati si riversava senza sosta dagli strumenti agli elaboratori, e il nostro sconcerto aumentava: immagini più dettagliate di quel sistema ci mostrarono le facce di sette pianeti e di un sole in tutto simili a quelle che ci erano fin troppo note; e non tardammo a scoprire che quelle lontanissime luci, di apparenza stellare ho detto, tracciavano disegni siderali che nessuno avrebbe saputo distinguere dalle nostre mitologiche costellazioni. L’innata curiosità dell’animo umano ne era piacevolmente stuzzicata, una vaga euforia pervadeva la nave mentre tutti sedevano ai propri posti in attesa di…
Non so davvero come potesse affacciarsi alla mia mente quell’eventualità pazzesca, vorrei dire assurda se non fosse che invece fu del tutto reale. Balzai sugli strumenti direzionali, senza dire parola: non c’era tempo per impartire ordini, forse era già troppo tardi, la velocità era tanto alta da rendere impossibile l’arresto subitaneo della nave; e così, mentre il signor Suru protestava debolmente ed il co-pilota lamentava una gomitata nell’occhio, io immettevo Argo nella traiettoria di un'interminabile tonneau, sperando che l’inversione di rotta cominciasse in tempo… in tempo per evitare il cielo di Saturno!
La dea bendata ebbe il buon gusto di non tradirci: avevamo ormai piegato di novanta gradi quando urtammo a prua, dove si trova la plancia di comando, e subito dopo a poppa, però solo di striscio. Fummo sballottati per bene, ma a parte la paura e qualche bernoccolo non c’era proprio da lamentarsi: a una prima sommaria ricognizione potemmo constatare che lo scafo era sostanzialmente intatto, forse qualche ammaccatura, e i due reattori funzionavano senz’altro. Più tardi però ci accorgemmo che alcune delle biovole dei propulsori si erano liquefatte, non capii bene perché; che altre erano fuori posto, ma che i verità i danni più gravi si erano verificati ai razzi direzionali anteriori, il che rendeva la nave poco manovrabile. Inoltre alcuni computers cominciarono a dare i numeri.
— Non c’è da fidarsi troppo, non sono affidabili. E senza meta-coordinate certe, non possiamo esporci ai rischi di un salto dimensionale: potremmo finire ovunque — sentenziò quasi con indifferenza il Tenente Manfred Kano, Ufficiale Cibernautico.
— Dimentica, signor Kano, che questi rischi li corriamo piuttosto spesso — ribattei io — non è vero, signor Suru? — e, girandomi sulla poltrona di comando, incrociai lo sguardo colpevole dell’Ufficiale di Rotta. — Comunque ha ragione, Kano: ci troviamo già in qualche angolo di questo ovunque e non è il caso di complicare ulteriormente la situazione.
Intanto, collocata Argo in un’orbita di parcheggio intorno al centro del sistema, vedevamo campeggiare nel grande schermo della plancia di comando le immagini dei due pianeti più interni, ripresi dal telescopio di bordo. — Guardate un po’ se non sembrano la Terra con la Luna! — borbottò qualcuno alle mie spalle. Mi riservai qualche minuto di riflessione, e infine decisi che saremmo scesi su quel pianeta dove avremmo potuto riparare i guasti con calma: questo è ciò che esposi ai miei Ufficiali, ma in realtà soprattutto curioso.
Un buon tre quarti dell’equipaggio non immaginava neppure lontanamente cosa poteva esserci capitato. Constatai con vergogna che ben pochi di loro avevano conoscenza delle antiche cosmogonie: solo tre o quattro uscivano dall’ignoranza più buia e si spingevano sino alle prime cosmologie relativistiche, con qualche barlume di gravitazione universale newtoniana e nulla più. Empedocle, Lucrezio, Dante Alighieri, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Bernardino Telesio, Copernico e Keplero, Spinoza e Leibniz erano per il mio encomiabile equipaggio nomi privi di significato. Giordano Bruno, al pari di Tommaso Moro e le streghe, era ricordato da alcuni quale vittima esemplare della crudeltà dell’antica Chiesa Cattolica. Qualcuno aveva sentito nominare Cartesio, per gli assi che portano il suo nome; e un buon numero conosceva Galileo solo per averlo visto recentemente in uno sceneggiato cosmovisivo. Nessuno conosceva Aristotele, né tantomeno Tolomeo.
— Insomma Comandante, cosa diavolo è quel muro là fuori? Per poco non finivamo a pezzi, ma le sonde non davano un accidente e…
— Si calmi, Guardiamarina Grubert, il diavolo non c’entra perché si tratta semplicemente di quintessenza — breve pausa ad effetto, poi ripresi: — Certo, una banalissima, enorme bolla di quintessenza. O etere, se preferite.
Mi fermai quando cominciai a leggere nei volti dei miei uomini l’intera gamma di espressioni che vanno da “capire niente” a “sorpresa di fronte a un pazzo insospettato”. Ferito nell’orgoglio assunsi un tono meno acquiescente e imposi il mio superiore sapere, di cui soprattutto Jacob Peanus e Rodolfo Redi − rispettivamente fisico e medico di bordo − parevano dubitare.
— So benissimo, Professor Peanus, che la quintessenza non compare neppure sulla più aggiornata Tavola dei Meta-Elementi. Disgraziatamente codesta tavola, come anche lei dovrà ammettere, ha il difetto non proprio trascurabile di tenere in conto solo gli universi noti, ma non tutti gli universi possibili… E, come lei dovrebbe sapere, il primo postulato della meta-fisica afferma questo: tutto ciò che è concettualmente possibile, da qualche parte realmente esiste — conclusi in tono decisamente cattedratico; mentre il Professor Peanus e il Dottor Redi, superate le perplessità iniziali, annuivano l’uno rivolto all’altro.
Insomma, per farla breve, dovetti subire l’umiliazione di raccontare per filo e per segno la storiella dei quattro elementi più quintessenza, delle sfere concentriche, dei pianeti incastrati nelle sfere − il che si rivelò uno scoglio concettuale quasi insuperabile − della musica celestiale, delle superne rote eccetera eccetera; perfino alcune nozioni fondamentali di filosofia presocratica. Quanto al concetto di centralità della Terra nel Cosmo, li vidi incerti se scoppiare a ridere senza pudore oppure arrendersi alle difficoltà di un universo da barzelletta.
— Se ciò può rassicurarvi un poco — feci allora Peanus, — questo universo non è esattamente aristotelico, dal momento che il principio d’inerzia sembra valido anche qui.
In poco tempo raccogliemmo una mole di dati sufficiente a costruirci una rappresentazione abbastanza precisa di quell’universo: il Professor Peanus e il signor Kano si erano davvero prodigati senza risparmio di energie, e quando infine mi presentarono addirittura un modellino cosmologico in scala completo di ogni corpo celeste − Argo compresa − non potei fare a meno di congratularmi con loro e dimenticare l’umiliazione che avevo dovuto subire soltanto poche ore prima.
— Vedete, cerchi perfetti — spiegava il Professor Peanus di fronte al mio equipaggio, ancora per metà incredulo, che probabilmente solo allora di fronte a qualcosa di tangibile riusciva a comprendere per davvero le mie improvvisate lezioni di Storia della Cosmologia. E mentre lo scienziato, ormai saldamente convertito alla nuova dottrina, catechizzava il popolo ignorante della mia nave, io osservavo il modellino e riflettevo sulla singolare struttura di quell’universo: era impossibile, viste analogie e rassomiglianze, non battezzare quell’astro ‘Sole’ e quei pianeti ‘Terra’, ‘Luna’, ‘Venere’ ecc. fino a ‘Saturno’: ovvero i corpi celesti noti all’uomo fin dall’antichità perché visibili ad occhio nudo. Il sistema era identico a quello proposto secoli fa dall’astronomo greco-alessandrino Claudio Tolomeo: un universo, dunque, che era la materializzazione di un pensiero; un po’ come avviene in quelle classi di universi olografici dove la realtà − ammesso che ancora la si possa così definire − convive con le proiezioni mentali.
Ad accrescere le mie perplessità c’era poi un piccolo particolare che risultava tuttora inspiegabile. Stando ai nostri rilevamenti le orbite dei due pianeti più vicini al Sole – Mercurio e Venere – dovevano necessariamente incrociare quella del Sole intorno alla Terra: ciò significava in pratica che i cieli di Mercurio e Venere dovevano intersecare il cielo del Sole. Come era possibile? Forse la legge dell’impenetrabilità della materia non valeva per la quintessenza? Non ricordavo proprio come Tyge Brahe avesse risolto la questione, né a dire il vero se vi avesse mai posto attenzione. E poi i pianeti come facevano a…
Ero così immerso nelle mie divagazioni quando la voce graziosa di Emma Grubert, Guardiamarina alle Comunicazioni, solleticò il mio udito: — Ma Comandante, come faremo ad andare di là? — Delle sue parole avevo colto più il suono che il significato, e poi ero sul punto di afferrare un pensiero che mi pareva importante; così, distrattamente, le chiesi di precisare cosa intendesse con “di là”. — Ma di là, oltre il cielo di Saturno — ella chiarì, esaminando sconcertata il modellino.
Erano le prime parole sensate che sentivo pronunciare dal mio deplorevole equipaggio. Che stupido! E pensare che solo poco ore prime stavamo per sfracellarci contro il cielo di Saturno… Come avevo potuto trascurare adesso questo insignificante dettaglio, e cioè che per raggiungere la Terra avremmo dovuto oltrepassare non una, ma bensì sette di quelle impenetrabili sfere?
Avremmo potuto forse aprirci un varco con la potenza di fuoco di Argo, ma esitavo: chissà quali squilibri cosmici avremmo potuto innescare. Oltretutto quegli involucri d’etere si facevano beffe delle nostre sonde, erano talmente invisibili che non sapevamo con esattezza dov’erano se non sbattendoci il naso… Senza conoscerne la struttura sub-meta-atomica non sapevamo proprio che fare. Per consolarmi pensai che forse quelle sfere erano comunque inattaccabili; che probabilmente non potevamo conoscere nulla più della loro struttura, poiché niente si può dire della quintessenza se non che è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza e così via. Ma non mi sentii un gran che sollevato.
Insomma, eravamo bloccati: avanti non era possibile andare, indietro neppure, saltare nemmeno. La gaiezza che si era propagata nell’equipaggio svanì d’un botto.
— Aristotele ha detto, Comandante? — grugnì il Professor Peanus, tirando fuori una delle sue più brutte espressioni. — Bella situazione, mi lasci dire. Senz’altro.
— Lasci perdere Aristotele, Jacob. Se proprio si vuole un capro espiatorio, proporrei il signor Suru — buttai lì per scherzo, con un sorriso, un po’ per sdrammatizzare, ma qualcuno cominciò sul serio a guardar storto l’Ufficiale. — Via, non facciamo i bambini. Abbiamo navigato anche in acque peggiori, devo ricordarvelo? E ce la siamo sempre cavata! Ai vostri posti ora, e vedrete che una soluzione salterà fuori. — Comandante di un asilo nido, ecco cos’ero, sono belle soddisfazioni.
Dopo un paio d’ore di accese discussioni avevamo quasi esaurito le idee.
Una delle proposte apparentemente più interessanti nasceva da questa osservazione: le orbite delle comete, fortemente ellittiche, dovevano necessariamente intersecare le sfere dei pianeti, ma poiché queste ruotavano, ciascuna sfera doveva mancare di un’intera fascia equatoriale per consentire il passaggio delle comete; e attraverso questa fascia anche Argo sarebbe passata. Tuttavia, mentre già l’equipaggio si abbandonava ai festeggiamenti, il Professor Peanus fece la sconcertante rivelazione che le comete… non esistevano, o meglio, che erano semplici intensificazioni di luminosità nel cielo delle stelle fisse, ultimo confine di quel cosmo. E ciò conformemente allo spirito degli antichi sistemi cosmologici, come quello ticonico, che non accettavano l’idea di corpi celesti in orbite che non fossero rigorosamente circolari…
Ma i satelliti? I satelliti planetari, orbitando attorno all’astro principale, dovevano pur attraversarne la sfera in determinati punti fissi, in ciascuno dei quali era ragionevole supporre l’esistenza di una sorta di varco!… E invece no. Presto capimmo che − similmente al caso di Mercurio e Venere in rapporto al Sole − il cielo portatore di un satellite intersecava sì quello del pianeta principale, ma senza lasciare varchi, come farebbe una lama affilatissima in un pane di burro; e quanto al corpo stesso del satellite, evidentemente era dotato di una non meglio definibile compatibilità con le sfere, che consentiva ad essi − e non a noi − di oltrepassarle. Probabilmente la quintessenza di cui erano costituite le sfere non andava intesa come materia in senso stretto, quanto piuttosto come un addensamento di campo, in grado di allentarsi elasticamente nell’interazione con un corpo celeste…
Insomma, non sapevamo più che pesci pigliare. Eravamo al punto di partenza. Lì, fra il cielo delle stelle fisse e quello di Saturno, mi sentivo come un fesso chiuso in un’anticamera con porte prive di maniglie.
— Ci vorrebbe una porta girevole allora — furono le sconsiderate parole di Tony Verdeschi, il vivandiere, al quale io avevo avuto l’infelice idea di comunicare, passando per caso in cambusa, la mia brillante metafora. Gli feci ben presente che se avesse pronunciato ancora una parola l’avrei sbattuto personalmente a calci fuori della nave.
Una porta girevole… Una porta girevole?!
— Verdeschi, si consideri promosso al grado di Maestro di Cambusa! — esclamai mentre giravo i tacchi per tornarmene di corsa in plancia.
Il mio voltafaccia sorprese un po’ tutti tranne, a quanto pareva, Tony Verdeschi medesimo il quale, affannandosi a inseguirmi per i corridoi fin quasi al ponte di comando, ben oltre i limiti consentiti al suo ruolo e grado, balbettò: — Mi confonde Signore, ma trovo giusto che la mia opera sia finalmente riconosciuta… anche se un po’ tardi, forse.
— Non si faccia illusioni, Verdeschi, il riconoscimento è quello che è… Semplicemente, mi è tornato il buon umore — replicai rientrando il plancia.
— Non si faccia illusioni, Verdeschi, il riconoscimento è quello che è… Semplicemente, mi è tornato il buon umore — replicai rientrando il plancia.
— Ah, di buon umore… Dottore, per cortesia, controlla un po’ le rotelle del Comandante, che mi pare non funzionino più tanto bene… — ghignò il Professor Peanus, con un sarcasmo che gli perdonai ben sapendo come ogni avversità finisca per guastargli il carattere.
— Calmati, Jacob. È solo che credo di aver trovato la soluzione. — E in quel clima di sfiducia e generale scetticismo mi accinsi ad esporre l’idea che proprio Verdeschi, con le sue sconsiderate parole, era riuscito a suggerirmi.
Semplice. I pianeti dovevano essere vere e proprie porte girevoli. Così ragionavo: posto che i pianeti erano portati dalle rispettive sfere a compiere il moto di rivoluzione intorno al Sole, tuttavia non era possibile che fossero incastrati alla propria sfera, per il semplice motivo che, se così fosse stato, non avrebbero potuto compiere il moto di rotazione intorno al proprio asse. Per far questo occorreva che il pianeta fosse fissato alla rispettiva sfera tramite una complessa struttura giroscopica che lo lasciasse libero di ruotare e orientarsi a piacere nello spazio; ma da ciò seguiva − corollario di capitale importanza nella nostra situazione − che fra superficie del pianeta e sfera celeste doveva restare un passaggio libero: uno spazio di manovra, non si sapeva ancora quanto ampio, ma certamente abbastanza da consentire il passaggio della nostra nave. Se Argo si fosse posata sulla superficie di Saturno, questa compiendo la propria rotazione avrebbe portato anche la nave − e noi con essa − ad oltrepassare il cielo del pianeta? Ero convinto di sì. O almeno lo speravo, speravo che la nostra struttura fosse compatibile con quella dell’universo almeno tanto da farla franca; il che era come sperare che le forze celesti non si accorgessero di noi, piccole pulci nel vasto vello di Saturno (ricordate Odisseo e come se ne venne fuori dalla caverna beffando Polifemo?).
— Calmati, Jacob. È solo che credo di aver trovato la soluzione. — E in quel clima di sfiducia e generale scetticismo mi accinsi ad esporre l’idea che proprio Verdeschi, con le sue sconsiderate parole, era riuscito a suggerirmi.
Semplice. I pianeti dovevano essere vere e proprie porte girevoli. Così ragionavo: posto che i pianeti erano portati dalle rispettive sfere a compiere il moto di rivoluzione intorno al Sole, tuttavia non era possibile che fossero incastrati alla propria sfera, per il semplice motivo che, se così fosse stato, non avrebbero potuto compiere il moto di rotazione intorno al proprio asse. Per far questo occorreva che il pianeta fosse fissato alla rispettiva sfera tramite una complessa struttura giroscopica che lo lasciasse libero di ruotare e orientarsi a piacere nello spazio; ma da ciò seguiva − corollario di capitale importanza nella nostra situazione − che fra superficie del pianeta e sfera celeste doveva restare un passaggio libero: uno spazio di manovra, non si sapeva ancora quanto ampio, ma certamente abbastanza da consentire il passaggio della nostra nave. Se Argo si fosse posata sulla superficie di Saturno, questa compiendo la propria rotazione avrebbe portato anche la nave − e noi con essa − ad oltrepassare il cielo del pianeta? Ero convinto di sì. O almeno lo speravo, speravo che la nostra struttura fosse compatibile con quella dell’universo almeno tanto da farla franca; il che era come sperare che le forze celesti non si accorgessero di noi, piccole pulci nel vasto vello di Saturno (ricordate Odisseo e come se ne venne fuori dalla caverna beffando Polifemo?).
Del resto, l’unica cosa da fare era provare. Ordinai a Suru di tracciare al più presto una rotta di avvicinamento al pianeta più esterno (Saturno, non Plutone, giacché questo universo ignorava tutti i corpi celesti ignoti al sistema tolemaico) e a Peanus di far allestire una sonda da lanciarvi contro. Il tempo sembrava non passare mai: con ansia crescente seguivamo le fasi di avvicinamento al pianeta, la programmazione della sonda, i preparativi del lancio, la partenza, il conto alla rovescia verso lo stretto punto di passaggio, con il cuore in gola l’approssimarsi dello ‘zero’, a ‘zero’ ormai scaduto tutti senza fiato… ma la sonda era ancora lì, cioè ormai già di là, a emettere i suoi bip, a testimoniare che ce l’aveva fatta, sì potevamo farcela… e allora scoppiò in tutta la nave un fragoroso urrà!
Così, ritrovate l'euforia e il piacere dell'avventura, ci accingemmo a varcare la soglia…
Così, ritrovate l'euforia e il piacere dell'avventura, ci accingemmo a varcare la soglia…
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