Frammento 1

Sotto la spinta del motore a biovole la piccola Argo solcava gli spazi di un universo a prima vista euclideo.
 Dopo alcune sbandate e spericolate manovre di correzione in coda ora la nave sembrava filare quasi normalmente, a parte un residuo fastidioso rollio. Il salto era stato violento, nonché del tutto fuori programma: così il Comandante Jason Velasco della Flotta Astrale della Prima Repubblica Galattica (che sarei io) pensò di dover redarguire il responsabile del mancato disastro.
 — Lo ammetta Tenente, le complicazioni meta-relativistiche non sono mai state il suo forte, eh? No, la smetta pure di brontolare, non ci sono scuse, ringrazi piuttosto per tutte le cattive parole che non, sottolineo ‘non’, ho messo nei miei rapporti… E adesso veda di portarci da qualche parte.
 Non avevo voluto essere troppo severo col signor Suru, Ufficiale di Rotta e compagno di vecchia data, la cui proverbiale sbadataggine ci aveva regalato in tanti anni incredibili avventure: avventure che nelle fiacche missioni di routine non avremmo mai conosciuto. Con un brivido ripescai nel fondo della memoria i sargassi di Finis Terrae e le sirti di Crab Nebula, rividi le simplegadi in Deneb IV, in Orione le polveri dissolventi, in M38 la terribile maestà delle nubi di Markarian… Argo aveva solcato universi inimmaginabili.

 Le prime rilevazioni strumentali ci riservarono non poche soprese: quell’universo pareva consistere di un solo sistema planetario circondato da numerosissime luci puntiformi di aspetto stellare, ma di natura ancora ignota, situate ai suoi ultimi confini. Il signor Suru, visibilmente imbarazzato, calcolò alla meglio una rotta e presto ci trovammo a procedere verso il centro di quel sistema.

 Cosmogonie assurde, universi impensati, mondi cercati a lungo e invano, e per caso trovati nell’Infinito Esistente… Tutto questo Argo aveva conosciuto. Nel Terzo Settore ammirammo la nascita di un nuovo universo, nel Settimo assistemmo alla lenta agonia di un altro. Altrove, ormai ai nostri limiti, ci imbattemmo in una sistema a piani paralleli; ai suoi antipodi in una struttura a sfere intersecanti; e qui intuimmo la sicura esistenza di irraggiungibili universi iperbolari. Mondi impossibili, come gli universi bidimensionali dove cielo e terra non si distinguono; mondi impensabili, come gli universi iperdimensionali; o ancora, mondi incredibili, come i sistemi dotati di dimensioni non intere, fluttuanti fra l’essere e il non essere…

 Intanto una messe di dati si riversava senza sosta dagli strumenti agli elaboratori, e il nostro sconcerto aumentava: immagini più dettagliate di quel sistema ci mostrarono le facce di sette pianeti e di un sole in tutto simili a quelle che ci erano fin troppo note; e non tardammo a scoprire che quelle lontanissime luci, di apparenza stellare ho detto, tracciavano disegni siderali che nessuno avrebbe saputo distinguere dalle nostre mitologiche costellazioni. L’innata curiosità dell’animo umano ne era piacevolmente stuzzicata, una vaga euforia pervadeva la nave mentre tutti sedevano ai propri posti in attesa di…

 Non so davvero come potesse affacciarsi alla mia mente quell’eventualità pazzesca, vorrei dire assurda se non fosse che invece fu del tutto reale. Balzai sugli strumenti direzionali, senza dire parola: non c’era tempo per impartire ordini, forse era già troppo tardi, la velocità era tanto alta da rendere impossibile l’arresto subitaneo della nave; e così, mentre il signor Suru protestava debolmente ed il co-pilota lamentava una gomitata nell’occhio, io immettevo Argo nella traiettoria di un'interminabile tonneau, sperando che l’inversione di rotta cominciasse in tempo… in tempo per evitare il cielo di Saturno!
 La dea bendata ebbe il buon gusto di non tradirci: avevamo ormai piegato di novanta gradi quando urtammo a prua, dove si trova la plancia di comando, e subito dopo a poppa, però solo di striscio. Fummo sballottati per bene, ma a parte la paura e qualche bernoccolo non c’era proprio da lamentarsi: a una prima sommaria ricognizione potemmo constatare che lo scafo era sostanzialmente intatto, forse qualche ammaccatura, e i due reattori funzionavano senz’altro. Più tardi però ci accorgemmo che alcune delle biovole dei propulsori si erano liquefatte, non capii bene perché; che altre erano fuori posto, ma che i verità i danni più gravi si erano verificati ai razzi direzionali anteriori, il che rendeva la nave poco manovrabile. Inoltre alcuni computers cominciarono a dare i numeri.
 — Non c’è da fidarsi troppo, non sono affidabili. E senza meta-coordinate certe, non possiamo esporci ai rischi di un salto dimensionale: potremmo finire ovunque — sentenziò quasi con indifferenza il Tenente Manfred Kano, Ufficiale Cibernautico.
 — Dimentica, signor Kano, che questi rischi li corriamo piuttosto spesso — ribattei io — non è vero, signor Suru? — e, girandomi sulla poltrona di comando, incrociai lo sguardo colpevole dell’Ufficiale di Rotta. — Comunque ha ragione, Kano: ci troviamo già in qualche angolo di questo ovunque e non è il caso di complicare ulteriormente la situazione.
 Intanto, collocata Argo in un’orbita di parcheggio intorno al centro del sistema, vedevamo campeggiare nel grande schermo della plancia di comando le immagini dei due pianeti più interni, ripresi dal telescopio di bordo. — Guardate un po’ se non sembrano la Terra con la Luna! — borbottò qualcuno alle mie spalle. Mi riservai qualche minuto di riflessione, e infine decisi che saremmo scesi su quel pianeta dove avremmo potuto riparare i guasti con calma: questo è ciò che esposi ai miei Ufficiali, ma in realtà soprattutto curioso.

 Un buon tre quarti dell’equipaggio non immaginava neppure lontanamente cosa poteva esserci capitato. Constatai con vergogna che ben pochi di loro avevano conoscenza delle antiche cosmogonie: solo tre o quattro uscivano dall’ignoranza più buia e si spingevano sino alle prime cosmologie relativistiche, con qualche barlume di gravitazione universale newtoniana e nulla più. Empedocle, Lucrezio, Dante Alighieri, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Bernardino Telesio, Copernico e Keplero, Spinoza e Leibniz erano per il mio encomiabile equipaggio nomi privi di significato. Giordano Bruno, al pari di Tommaso Moro e le streghe, era ricordato da alcuni quale vittima esemplare della crudeltà dell’antica Chiesa Cattolica. Qualcuno aveva sentito nominare Cartesio, per gli assi che portano il suo nome; e un buon numero conosceva Galileo solo per averlo visto recentemente in uno sceneggiato cosmovisivo. Nessuno conosceva Aristotele, né tantomeno Tolomeo.
 — Insomma Comandante, cosa diavolo è quel muro là fuori? Per poco non finivamo a pezzi, ma le sonde non davano un accidente e…
 — Si calmi, Guardiamarina Grubert, il diavolo non c’entra perché si tratta semplicemente di quintessenza — breve pausa ad effetto, poi ripresi: — Certo, una banalissima, enorme bolla di quintessenza. O etere, se preferite.
 Mi fermai quando cominciai a leggere nei volti dei miei uomini l’intera gamma di espressioni che vanno da “capire niente” a “sorpresa di fronte a un pazzo insospettato”. Ferito nell’orgoglio assunsi un tono meno acquiescente e imposi il mio superiore sapere, di cui soprattutto Jacob Peanus e Rodolfo Redi − rispettivamente fisico e medico di bordo − parevano dubitare.
 — So benissimo, Professor Peanus, che la quintessenza non compare neppure sulla più aggiornata Tavola dei Meta-Elementi. Disgraziatamente codesta tavola, come anche lei dovrà ammettere, ha il difetto non proprio trascurabile di tenere in conto solo gli universi noti, ma non tutti gli universi possibili… E, come lei dovrebbe sapere, il primo postulato della meta-fisica afferma questo: tutto ciò che è concettualmente possibile, da qualche parte realmente esiste — conclusi in tono decisamente cattedratico; mentre il Professor Peanus e il Dottor Redi, superate le perplessità iniziali, annuivano l’uno rivolto all’altro.

 Insomma, per farla breve, dovetti subire l’umiliazione di raccontare per filo e per segno la storiella dei quattro elementi più quintessenza, delle sfere concentriche, dei pianeti incastrati nelle sfere − il che si rivelò uno scoglio concettuale quasi insuperabile − della musica celestiale, delle superne rote eccetera eccetera; perfino alcune nozioni fondamentali di filosofia presocratica. Quanto al concetto di centralità della Terra nel Cosmo, li vidi incerti se scoppiare a ridere senza pudore oppure arrendersi alle difficoltà di un universo da barzelletta.

 — Se ciò può rassicurarvi un poco — feci allora Peanus, — questo universo non è esattamente aristotelico, dal momento che il principio d’inerzia sembra valido anche qui.

 In poco tempo raccogliemmo una mole di dati sufficiente a costruirci una rappresentazione abbastanza precisa di quell’universo: il Professor Peanus e il signor Kano si erano davvero prodigati senza risparmio di energie, e quando infine mi presentarono addirittura un modellino cosmologico in scala completo di ogni corpo celeste − Argo compresa − non potei fare a meno di congratularmi con loro e dimenticare l’umiliazione che avevo dovuto subire soltanto poche ore prima.
 — Vedete, cerchi perfetti — spiegava il Professor Peanus di fronte al mio equipaggio, ancora per metà incredulo, che probabilmente solo allora di fronte a qualcosa di tangibile riusciva a comprendere per davvero le mie improvvisate lezioni di Storia della Cosmologia. E mentre lo scienziato, ormai saldamente convertito alla nuova dottrina, catechizzava il popolo ignorante della mia nave, io osservavo il modellino e riflettevo sulla singolare struttura di quell’universo: era impossibile, viste analogie e rassomiglianze, non battezzare quell’astro ‘Sole’ e quei pianeti ‘Terra’, ‘Luna’, ‘Venere’ ecc. fino a ‘Saturno’: ovvero i corpi celesti noti all’uomo fin dall’antichità perché visibili ad occhio nudo. Il sistema era identico a quello proposto secoli fa dall’astronomo greco-alessandrino Claudio Tolomeo: un universo, dunque, che era la materializzazione di un pensiero; un po’ come avviene in quelle classi di universi olografici dove la realtà − ammesso che ancora la si possa così definire − convive con le proiezioni mentali.

 Ad accrescere le mie perplessità c’era poi un piccolo particolare che risultava tuttora inspiegabile. Stando ai nostri rilevamenti le orbite dei due pianeti più vicini al Sole – Mercurio e Venere – dovevano necessariamente incrociare quella del Sole intorno alla Terra: ciò significava in pratica che i cieli di Mercurio e Venere dovevano intersecare il cielo del Sole. Come era possibile? Forse la legge dell’impenetrabilità della materia non valeva per la quintessenza? Non ricordavo proprio come Tyge Brahe avesse risolto la questione, né a dire il vero se vi avesse mai posto attenzione. E poi i pianeti come facevano a…

 Ero così immerso nelle mie divagazioni quando la voce graziosa di Emma Grubert, Guardiamarina alle Comunicazioni, solleticò il mio udito: — Ma Comandante, come faremo ad andare di là? — Delle sue parole avevo colto più il suono che il significato, e poi ero sul punto di afferrare un pensiero che mi pareva importante; così, distrattamente, le chiesi di precisare cosa intendesse con “di là”. — Ma di là, oltre il cielo di Saturno — ella chiarì, esaminando sconcertata il modellino.

 Erano le prime parole sensate che sentivo pronunciare dal mio deplorevole equipaggio. Che stupido! E pensare che solo poco ore prime stavamo per sfracellarci contro il cielo di Saturno… Come avevo potuto trascurare adesso questo insignificante dettaglio, e cioè che per raggiungere la Terra avremmo dovuto oltrepassare non una, ma bensì sette di quelle impenetrabili sfere?
 Avremmo potuto forse aprirci un varco con la potenza di fuoco di Argo, ma esitavo: chissà quali squilibri cosmici avremmo potuto innescare. Oltretutto quegli involucri d’etere si facevano beffe delle nostre sonde, erano talmente invisibili che non sapevamo con esattezza dov’erano se non sbattendoci il naso… Senza conoscerne la struttura sub-meta-atomica non sapevamo proprio che fare. Per consolarmi pensai che forse quelle sfere erano comunque inattaccabili; che probabilmente non potevamo conoscere nulla più della loro struttura, poiché niente si può dire della quintessenza se non che è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza, la quale è fatta di quintessenza e così via. Ma non mi sentii un gran che sollevato.

 Insomma, eravamo bloccati: avanti non era possibile andare, indietro neppure, saltare nemmeno. La gaiezza che si era propagata nell’equipaggio svanì d’un botto.
— Aristotele ha detto, Comandante? — grugnì il Professor Peanus, tirando fuori una delle sue più brutte espressioni. — Bella situazione, mi lasci dire. Senz’altro.
 — Lasci perdere Aristotele, Jacob. Se proprio si vuole un capro espiatorio, proporrei il signor Suru — buttai lì per scherzo, con un sorriso, un po’ per sdrammatizzare, ma qualcuno cominciò sul serio a guardar storto l’Ufficiale. — Via, non facciamo i bambini. Abbiamo navigato anche in acque peggiori, devo ricordarvelo? E ce la siamo sempre cavata! Ai vostri posti ora, e vedrete che una soluzione salterà fuori. — Comandante di un asilo nido, ecco cos’ero, sono belle soddisfazioni.

 Dopo un paio d’ore di accese discussioni avevamo quasi esaurito le idee.
Una delle proposte apparentemente più interessanti nasceva da questa osservazione: le orbite delle comete, fortemente ellittiche, dovevano necessariamente intersecare le sfere dei pianeti, ma poiché queste ruotavano, ciascuna sfera doveva mancare di un’intera fascia equatoriale per consentire il passaggio delle comete; e attraverso questa fascia anche Argo sarebbe passata. Tuttavia, mentre già l’equipaggio si abbandonava ai festeggiamenti, il Professor Peanus fece la sconcertante rivelazione che le comete… non esistevano, o meglio, che erano semplici intensificazioni di luminosità nel cielo delle stelle fisse, ultimo confine di quel cosmo. E ciò conformemente allo spirito degli antichi sistemi cosmologici, come quello ticonico, che non accettavano l’idea di corpi celesti in orbite che non fossero rigorosamente circolari…

 Ma i satelliti? I satelliti planetari, orbitando attorno all’astro principale, dovevano pur attraversarne la sfera in determinati punti fissi, in ciascuno dei quali era ragionevole supporre l’esistenza di una sorta di varco!… E invece no. Presto capimmo che − similmente al caso di Mercurio e Venere in rapporto al Sole − il cielo portatore di un satellite intersecava sì quello del pianeta principale, ma senza lasciare varchi, come farebbe una lama affilatissima in un pane di burro; e quanto al corpo stesso del satellite, evidentemente era dotato di una non meglio definibile compatibilità con le sfere, che consentiva ad essi − e non a noi − di oltrepassarle. Probabilmente la quintessenza di cui erano costituite le sfere non andava intesa come materia in senso stretto, quanto piuttosto come un addensamento di campo, in grado di allentarsi elasticamente nell’interazione con un corpo celeste…

 Insomma, non sapevamo più che pesci pigliare. Eravamo al punto di partenza. Lì, fra il cielo delle stelle fisse e quello di Saturno, mi sentivo come un fesso chiuso in un’anticamera con porte prive di maniglie.
 — Ci vorrebbe una porta girevole allora — furono le sconsiderate parole di Tony Verdeschi, il vivandiere, al quale io avevo avuto l’infelice idea di comunicare, passando per caso in cambusa, la mia brillante metafora. Gli feci ben presente che se avesse pronunciato ancora una parola l’avrei sbattuto personalmente a calci fuori della nave.

 Una porta girevole… Una porta girevole?!

 — Verdeschi, si consideri promosso al grado di Maestro di Cambusa! — esclamai mentre giravo i tacchi per tornarmene di corsa in plancia.
 Il mio voltafaccia sorprese un po’ tutti tranne, a quanto pareva, Tony Verdeschi medesimo il quale, affannandosi a inseguirmi per i corridoi fin quasi al ponte di comando, ben oltre i limiti consentiti al suo ruolo e grado, balbettò: — Mi confonde Signore, ma trovo giusto che la mia opera sia finalmente riconosciuta… anche se un po’ tardi, forse.
 — Non si faccia illusioni, Verdeschi, il riconoscimento è quello che è… Semplicemente, mi è tornato il buon umore — replicai rientrando il plancia.
 — Ah, di buon umore… Dottore, per cortesia, controlla un po’ le rotelle del Comandante, che mi pare non funzionino più tanto bene… — ghignò il Professor Peanus, con un sarcasmo che gli perdonai ben sapendo come ogni avversità finisca per guastargli il carattere.
 — Calmati, Jacob. È solo che credo di aver trovato la soluzione. — E in quel clima di sfiducia e generale scetticismo mi accinsi ad esporre l’idea che proprio Verdeschi, con le sue sconsiderate parole, era riuscito a suggerirmi.

 Semplice. I pianeti dovevano essere vere e proprie porte girevoli. Così ragionavo: posto che i pianeti erano portati dalle rispettive sfere a compiere il moto di rivoluzione intorno al Sole, tuttavia non era possibile che fossero incastrati alla propria sfera, per il semplice motivo che, se così fosse stato, non avrebbero potuto compiere il moto di rotazione intorno al proprio asse. Per far questo occorreva che il pianeta fosse fissato alla rispettiva sfera tramite una complessa struttura giroscopica che lo lasciasse libero di ruotare e orientarsi a piacere nello spazio; ma da ciò seguiva − corollario di capitale importanza nella nostra situazione − che fra superficie del pianeta e sfera celeste doveva restare un passaggio libero: uno spazio di manovra, non si sapeva ancora quanto ampio, ma certamente abbastanza da consentire il passaggio della nostra nave. Se Argo si fosse posata sulla superficie di Saturno, questa compiendo la propria rotazione avrebbe portato anche la nave − e noi con essa − ad oltrepassare il cielo del pianeta? Ero convinto di sì. O almeno lo speravo, speravo che la nostra struttura fosse compatibile con quella dell’universo almeno tanto da farla franca; il che era come sperare che le forze celesti non si accorgessero di noi, piccole pulci nel vasto vello di Saturno (ricordate Odisseo e come se ne venne fuori dalla caverna beffando Polifemo?).
 Del resto, l’unica cosa da fare era provare. Ordinai a Suru di tracciare al più presto una rotta di avvicinamento al pianeta più esterno (Saturno, non Plutone, giacché questo universo ignorava tutti i corpi celesti ignoti al sistema tolemaico) e a Peanus di far allestire una sonda da lanciarvi contro. Il tempo sembrava non passare mai: con ansia crescente seguivamo le fasi di avvicinamento al pianeta, la programmazione della sonda, i preparativi del lancio, la partenza, il conto alla rovescia verso lo stretto punto di passaggio, con il cuore in gola l’approssimarsi dello ‘zero’, a ‘zero’ ormai scaduto tutti senza fiato… ma la sonda era ancora lì, cioè ormai già di là, a emettere i suoi bip, a testimoniare che ce l’aveva fatta, sì potevamo farcela… e allora scoppiò in tutta la nave un fragoroso urrà!

 Così, ritrovate l'euforia e il piacere dell'avventura, ci accingemmo a varcare la soglia…
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Prima lacuna


Gli antichi manoscritti proseguono, da questo punto, con differenti versioni, tutte lacunose e frammentarie. Secondo una di queste [>>>], Argo in tale modo supera indenne i cieli dei pianeti benché essa trovi, ad ogni varco, gigantesche figure a custodirne il passaggio: la Rosa dei Beati (Saturno), il Sacerdote Eterno Melkisedek (Giove), gli arcangeli Gabriel, Mikael, Rafael (Marte), Salomone (Sole), Adamo ed Eva (Venere), Mosé (Mercurio), Virgilio e Dante (Luna). Qui giunta, però, la nave non può proseguire perché la Luna, com’è noto, non ruota rispetto al proprio cielo. Interviene allora il Demiurgo in persona, davvero “deus ex machina”, consentendo il passaggio di Argo attraverso il cielo della Luna; a patto però che sia imbarcato il profeta Ezeqeel e che il Comandante Velasco si impegni ad aiutarlo in una delicata missione: condurre il profeta fra il popolo ebreo deportato a Babilonia con il difficile compito di rinnovarne la fede, provata, in Dio.
 Ma la versione pervenutaci più integra diverge completamente da questa: seguiamone il filo.
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Frammento 2A

…dell'Eden, evidentemente, a giudicare dalla presenza di due colossali serafini sbucati da dietro Saturno con tanto di bianche ali, corrusche corazze e fiammeggianti spade roteanti minacciose di fronte a noi: restando fermi e con i piedi sugli anelli del pianeta, le figure alate campeggiavano a figura intera sul grande schermo del ponte di comando e sembravano sfidarci a proseguire.
 — Oh questa è bella! E che se ne fanno delle ali, nello spazio vuoto? — intervenne Peanus rompendo uno sconcertato silenzio.
 — Interessante domanda, caro Professore, ma non mi sembra la più importante in questo momento… — fu la mia replica. — Guardiamarina Grubert, apra un canale di comunicazione con l'esterno, vorrei fare due chiacchere con questi… esseri.
 — Non è necessario, Comandante Velasco, — tuonò una voce possente mentre sul ponte di comando si spandeva, inspiegabilmente, un profumo quasi impercettibile di incenso, — Dio concede che noi si possa comunicare direttamente: Egli vi diffida dal proseguire e vi intima di uscire immediatamente da questo universo.
 Il Professor Peanus mi guardò sbarrando gli occhi, ammiccante, accompagnando l'atto con un ampio e sarcastico movimento circolare del braccio.
 — Nientepopodimeno… — fu il suo commento; poi, rivolto agli esseri: — Sentite, angioletti, non ci teniamo granché a restare in questo boccia di vetro, ma il fatto è che per volarcene via dobbiamo prima riparare qualche guasto, e allo scopo servono alcuni minerali che si trovano sulla Terra. Chiaro, uccellini? Prima si va sulla Terra, prima si toglie il disturbo! — concluse, con uno sbuffo.
 — Un po' di garbo, Jacob! Non siamo a casa nostra, — lo rimproverai stizzito, parlando a bassa voce.
 — Andiamo, Jason, chi vogliono prendere in giro? Dio! Un demiurghino di provincia, al massimo, e lo chiamano ‘Dio’… — replicò Peanus con voce soffocata.
 — Che Dio perdoni la loro insolenza, Azazel.
 — Procediamo, Asradel?
 — Un momento, un momento! — intervenni io. — Pur con estrema indelicatezza il Professor Peanus ha detto il vero: anche volendo, non possiamo lasciare questo universo senza quei minerali che servono a riparare i danni subiti dalla nave. Vi chiediamo di comprendere la nostra situazione, e se possibile di aiutarci.
 — Già: ad esempio, ‘Dio’ potrebbe portarceli qui, quei minerali, o chissà, anche riparare direttamente il guasto! — ironizzò Peanus.
 — Non tenterai il tuo Dio! — si levò severa la voce di Azazel.
 Non ero riuscito a fermare Peanus con quel bel calcio assestato nello stinco, ma ormai mi ero stufato anch'io di quella sceneggiata e sbottai: — Sentiteee… Serafini, eh, giusto?… Non trattateci sprovveduti: non abbiamo l'anello al naso, come si dice da noi. Smettiamola di bluffare: ad esempio, so benissimo, in base ai dati che il nostro Kano mi ha appena passato… grazie Kano… che le vostre spade fiammeggianti sono ologrammi, e non farebbero un graffio allo scafo di Argo; e che se sparassimo un colpo col cannone protonico di Argo, Saturno e la sua sfera volerebbero in pezzi e le vostre ali non sarebbero spiumate solo perché sono anch'esse proiezioni olografiche, come voi due del resto. E fatela finita di proiettarci sensazioni olfattive d’incenso, che non sopporto più dai tempi in cui facevo il chierichetto!
 Allora vedemmo Azazel e Asradel guardarsi di sfuggita negli occhi, visibilmente imbarazzati, poi le loro figure sbiadirono, si fecero evanescenti e instabili, il grande schermo sfarfallò qualche secondo e infine, quando l'immagine si ristabilì, apparve una figura a mezzo busto, con barba e capelli lunghi e candidi come neve; alle sue spalle, quel che aveva tutta l'apparenza di una sala di controllo affollata di tecnici.
 — Mi presento, Comandante: il mio nome è Enoch, Direttore della Stazione di Controllo di Saturno. Ho il compito di sorvegliare i quadranti esterni di questo universo, e ho l'obbligo di impedire agli eventuali intrusi ad alto contenuto tecnologico, come voi, di addentrarsi nelle sfere più centrali e, in particolare, di raggiungere la Terra.
 — Per quale motivo? Non è nostra intenzione interferire in alcun modo nella normale evoluzione di questo universo, se questo è il problema, — dissi io.
 — Non ne dubito, Comandante. Tuttavia, un eventuale contatto fra voi e le popolazioni terrestri, anche solo visuale, costituirebbe già di per sé una incommensurabile interferenza nella “normale evoluzione di questo universo”, con effetti potenzialmente disastrosi: e ciò è contro il volere di YHWH.
 — YHWH? E chi sarebbe costui? — borbottò Peanus.
 — Andiamo, Jacob: ‘Dio’: il demiurgo di questo universo — dissi io.
 — Esattamente, Comandante, — confermò Enoch.
 — Mi sembra chiaro, Enoch: — ripresi io — gli esseri umani, in questo universo, vengono tenuti in una campana di vetro, come topolini in gabbia, come pesci in un acquario, come serpenti in un rettilario, come uccelli esotici in una voliera; nutriti e protetti, studiati e analizzati, soggetti a esperimenti di laboratorio; ma tenuti all'oscuro della vera realtà, dell'esistenza di altre creature intelligenti, di altri creatori, o come diciamo noi di “guide universali”; tenuti all'oscuro del fatto che, oltre i limiti angusti di queste sfere, vi è l'Oceano dell'Infinito Esistente.
 — Come avveniva sulla nostra Terra, nel secolo ventesimo, quando i governi tenevano i cittadini all'oscuro dell'esistenza di contatti con civiltà aliene? — intervenne il Guardiamarina Grubert, senza nascondere la propria perplessità.
 — Qualcosa di simile, Grubert; o sbaglio, Enoch? — domandai in tono di sfida.
 Enoch restò a lungo in silenzio, poi trasse un lungo sospiro e infine brontolò: — Vi racconterò come stanno le cose…
 Sul ponte di comando cessarono i mormorii e scese un silenzio di attesa.
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Seconda lacuna

Il terzo frammento, che segue, si distingue dal precedente per il fatto di non essere scritto in prima persona dal Comandante Velasco. Sembra essere, piuttosto, un’interpolazione di materiale proveniente da altri antichi testi, di carattere cosmogonico e mitologico, che qualche redattore successivo inserì nel filone delle Avventure di Jason Velasco, trovandovi affinità di temi.
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Frammento 3

In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l`abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
 Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
 Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
 Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l`asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l`asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. E Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie». E così avvenne: la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
 Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne: Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
 Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra». E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
 Dio disse: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie». E così avvenne: Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
 E Dio disse: «Facciamo l`uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».
 Allora il Signore Dio plasmò l`uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l`uomo divenne un essere vivente.
 Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l`albero della vita in mezzo al giardino e l`albero della conoscenza del bene e del male.
 Il Signore Dio prese l`uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
 Il Signore Dio diede questo comando all`uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell`albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
 E il Signore Dio disse: «Non è bene che l`uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull`uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all`uomo, una donna e la condusse all`uomo. Ora tutti e due erano nudi, l`uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.
 E Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

 […]

 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «E` vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?».
 Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell`albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l`albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch`egli ne mangiò.
 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l`uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino.
 Ma il Signore Dio chiamò l`uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell`albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
 Rispose l`uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell`albero e io ne ho mangiato».
 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
 Il Signore Dio disse allora: «Ecco l`uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell`albero della vita, ne mangi e viva sempre!».
 Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto… bla bla bla… ».
 Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori… bla bla bla… ».
 All`uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie… bla bla bla… ».
 L`uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.
 Il Signore Dio fece all`uomo e alla donna tuniche di pelli e le vestì.
 Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.
 Scacciò l`uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all`albero della vita.

 […]

 Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore». Poi partorì ancora suo fratello Abele… bla bla bla Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise… bla bla bla… Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch [non il sottoscritto, un altro Enoch, mio avo]… bla bla bla… Adamo si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Set… bla bla bla… Anche a Set nacque un figlio, che egli chiamò Enos; Enos generò Kenan; Kenan generò Maalaleel; Maalaleel generò Iared; Iared generò Enoch [ecco, questo sono io]; Enoch generò Matusalemme, poi Enoch camminò con Dio e non fu più perché Dio l'aveva preso; Matusalemme generò Lamech; Lamech generò Noè; Noè Sem, Cam e Iafet.
 Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero… bla bla bla… C'erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell'antichità, uomini famosi. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: «Sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato: con l'uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d'averli fatti». Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore. Questa è la storia di Noè… bla bla bla…
 Allora Dio disse a Noè: «E` venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un'arca di legno di cipresso… bla bla bla… Ecco io manderò il diluvio… bla bla bla… Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell'arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli… bla bla bla… Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece… bla bla bla… Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti… bla bla bla… Le acque divennero poderose e crebbero molto sopra la terra e l`arca galleggiava sulle acque. Le acque si innalzarono sempre più sopra la terra e coprirono tutti i monti più alti che sono sotto tutto il cielo… bla bla bla… Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: dagli uomini, agli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell`arca… bla bla bla… Dio si ricordò di Noè , di tutte le fiere e di tutti gli animali domestici che erano con lui nell`arca. Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono… bla bla bla… le acque andarono via via ritirandosi dalla terra… bla bla bla… l`arca si posò sui monti dell`Ararat… bla bla bla… Noè poi fece uscire una colomba, per vedere se le acque si fossero ritirate dal suolo… bla bla bla… ed ecco la superficie del suolo era asciutta. Dio ordinò a Noè : «Esci dall`arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali d`ogni specie che hai con te, uccelli, bestiame e tutti i rettili che strisciano sulla terra, falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa».
 Noè uscì con i figli, la moglie e le mogli dei figli. Tutti i viventi e tutto il bestiame e tutti gli uccelli e tutti i rettili che strisciano sulla terra, secondo la loro specie, uscirono dall`arca. Allora Noè edificò un altare al Signore; prese ogni sorta di animali mondi e di uccelli mondi e offrì olocausti sull`altare. Il Signore ne odorò la soave fragranza e disse tra sé: “Non maledirò più il suolo a causa dell`uomo, perché l`istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto”.
 Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo… bla bla bla… Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza coni vostri discendenti dopo di voi; con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e bestie selvatiche, con tutti gli animali che sono usciti dall'arca… bla bla bla… Questo è il segno dell'alleanza, che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi per le generazioni eterne. Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell'alleanza tra me e la terra… bla bla bla… L'arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra… bla bla bla…»
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Frammento 4

― Per carità, Enoch figlio di Iared, la storia grosso modo già la conosciamo… — dovetti intervenire (mentendo, perché solo io e il Professor Lorenz, l’antropologo, conoscevamo la storia) per interrompere quel diluvio di parole, stremato dallo sforzo di reprimere gli sbadigli.
 — Incredibile: non avrei mai pensato che questa storia potesse essere vera. D’altronde, bisogna dire, nel mare delle infinite possibilità perfino quelle più assurde debbono verificarsi — commentò Penaus, al quale invece non riusciva mai di reprimere i suoi moti d’animo e men che meno il suo sarcasmo.
 — Un padrone piuttosto severo e possessivo, il vostro Dio ― commentò a sua volta il dottor Redi sconcertato dal racconto.
 — Un padre amorevole e premuroso, preferirei dire ― ribatté Enoch; ― Un padre il cui desiderio è quello di ricondurre a sé le proprie creature.
 — Sacrosanto… Ma tornando a noi, cosa ha a che fare tutto ciò con il nostro problema? Noi non vorremmo fa altro che prendere ciò che ci serve, con permesso s’intende, e poi andarcene al più presto — disse il professor Peanus.
 — Non capisci, Jacob? ― dissi io, precedendo la risposta di Enoch — YHWH, non può tollerare che il suo esperimento antropologico fallisca: questo “popolo dalla dura cervice” gli ha già dato troppi problemi e non può correre ulteriori rischi: voglio dire, che venga deviato da pensieri non ortodossi, come quelli che potrebbero sorgere dalla visione di una astronave e dei suoi occupanti, anch’essi umani, eppur così diversi da loro! Giusto Enoch?
 Enoch trasse un sospiro e infine annuì.
 — D’accordo, Enoch, comprendo la tua posizione e non pretendo che tu dica ciò che non puoi dire… Ma mettiti un po’ nei nostri panni: dovremmo restare prigionieri in questo universo? Possibile che non ci sia altra soluzione? E poi, in fondo, tu, proprio tu sei stato protagonista di un contatto: di te si dice che un giorno hai “camminato con Dio” e da allora nessuno ti ha più visto…
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Terza lacuna

A questo punto il racconto torna ad essere lacunoso e frammentario, e nei vari testi pervenutici (che mostrano abbondanti segni di rimaneggiamenti e interpolazioni) il filo della narrazione si apre a differenti sviluppi che in parte confluiscono, forse, in quello precedentemente citato. Secondo alcune fonti Enoch avanza una proposta, dichiarandosi disponibile ad imbarcare sul Carro Divino, in procinto di partire in missione verso la Terra, una piccola squadra guidata dal Comandante Velasco in persona. Questi si dice d’accordo. Sembra di intuire che gli uomini di Argo potrebbero essere utili alla missione di Enoch. Il Carro Divino sarebbe in seguito affidato alla squadra comandata da Velasco (Enoch intanto è stato richiamato, per motivi ignoti, al cielo di Saturno) che, giunta sulla Terra, si porta nei pressi di Babilonia dove è stanziato il popolo ebraico in cattività: qui il Carro Divino verrebbe visto da Ezeqeel. Dai frammenti pervenuti non è chiaro se si tratti questa di un’iniziativa del Comandante Velasco, non precedentemente concordata; ma ciò, benché in accordo con il carattere del personaggio, sembra molto improbabile vista la precaria condizione degli esploratori, con la loro nave lontanissima e ancora fuori uso.
 Tuttavia le fonti tramandateci più integre, attribuibili alla stessa mano che ha composto il frammento terzo, narrano sviluppi della storia ancor più avventurosi. A causa di un’avaria del Carro Divino la squadra del Comandante Velasco farebbe naufragio sulla Terra, disperdendosi; Velasco stesso resterebbe solo, perdendo la memoria, e verrebbe accolto da una delle comunità di ebrei deportati a babilonia. Qui, sulle rive del Chebàr, ribattezzato con il nome di Ezeqeel, egli assiste alla visione del “Carro Divino”, presumibilmente restaurato e ritornato a recuperarlo.
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Frammento 5

Il cinque del quarto mese dell'anno trentesimo, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del canale Chebàr, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine: la parola del Signore fu rivolta a Ezeqeel, nel paese dei Caldei, lungo il canale Chebàr. Qui fu sopra di lui la mano del Signore.
 Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione, una grande nube e un turbinìo di fuoco, che splendeva tutto intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro incandescente. Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l'aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali. Le loro gambe erano diritte e gli zoccoli dei loro piedi erano come gli zoccoli dei piedi d'un vitello, splendenti come lucido bronzo. Sotto le ali, ai quattro lati, avevano mani d'uomo; tutti e quattro avevano le medesime sembianze e le proprie ali, e queste ali erano unite l'una all'altra. Mentre avanzavano, non si volgevano indietro, ma ciascuno andava diritto avanti a sé.
 Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d'uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d'aquila. Le loro ali erano spiegate verso l'alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che coprivano il corpo. Ciascuno si muoveva davanti a sé; andavano là dove lo spirito li dirigeva e, muovendosi, non si voltavano indietro.
 Tra quegli esseri si vedevano come carboni ardenti simili a torce che si muovevano in mezzo a loro. Il fuoco risplendeva e dal fuoco si sprigionavano bagliori. Gli esseri andavano e venivano come un baleno. Io guardavo quegli esseri ed ecco sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro.
 Le ruote avevano l'aspetto e la struttura come di topazio e tutt'e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un'altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt'e quattro erano pieni di occhi tutt'intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell'essere vivente era nelle ruote. […] Al di sopra delle teste degli esseri viventi vi era una specie di firmamento, simile ad un cristallo splendente, disteso sopra le loro teste, e sotto il firmamento vi erano le loro ali distese, l'una di contro all'altra; ciascuno ne aveva due che gli coprivano il corpo. Quando essi si muovevano, io udivo il rombo delle ali, simile al rumore di grandi acque, come il tuono dell'Onnipotente, come il fragore della tempesta, come il tumulto d'un accampamento. Quando poi si fermavano, ripiegavano le ali. Ci fu un rumore al di sopra del firmamento che era sulle loro teste.
 Sopra il firmamento che era sulle loro teste apparve come una pietra di zaffiro in forma di trono e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane. Da ciò che sembrava essere dai fianchi in su, mi apparve splendido come l'elettro e da ciò che sembrava dai fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da uno splendore il cui aspetto era simile a quello dell'arcobaleno nelle nubi in un giorno di pioggia. Tale mi apparve l'aspetto della gloria del Signore. Quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava.

  […] Mi disse ancora: «Figlio dell'uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi: poi va', recati dai deportati, dai figli del tuo popolo, e parla loro. Dirai: “Così dice il Signore, ascoltino o non ascoltino”».
 Allora uno spirito mi sollevò e dietro a me udii un grande fragore: «Benedetta la gloria del Signore dal luogo della sua dimora!». Era il rumore delle ali degli esseri viventi che le battevano l'una contro l'altra e contemporaneamente il rumore delle ruote e il rumore di un grande frastuono. Uno spirito dunque mi sollevò e mi portò via; io ritornai triste e con l'animo eccitato, mentre la mano del Signore pesava su di me. Giunsi dai deportati di Tel-Avìv, che abitano lungo il canale Chebàr, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito. […]

  […] Al quinto giorno del sesto mese dell'anno sesto, mentre mi trovavo in casa e dinanzi a me sedevano gli anziani di Giuda, la mano del Signore Dio si posò su di me e vidi qualcosa dall'aspetto d'uomo: da ciò che sembravano i suoi fianchi in giù, appariva come di fuoco e dai fianchi in su appariva come uno splendore simile all'elettro. Stese come una mano e mi afferrò per i capelli: uno spirito mi sollevò fra terra e cielo e mi portò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso del cortile interno, che guarda a settentrione, dove era collocato l'idolo della gelosia, che provocava la gelosia. Ed ecco là era la gloria del Dio d'Israele, simile a quella che avevo visto nella valle. […]

 Allora una voce potente gridò ai miei orecchi: «Avvicinatevi, voi che dovete punire la città, ognuno con lo strumento di sterminio in mano». Ecco sei uomini giungere dalla direzione della porta superiore che guarda a settentrione, ciascuno con lo strumento di sterminio in mano. In mezzo a loro c'era un altro uomo, vestito di lino, con una borsa da scriba al fianco. Appena giunti, si fermarono accanto all'altare di bronzo. La gloria del Dio di Israele, dal cherubino sul quale si posava si alzò verso la soglia del tempio e chiamò l'uomo vestito di lino che aveva al fianco la borsa da scriba. Il Signore gli disse: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono». Agli altri disse, in modo che io sentissi: «Seguitelo attraverso la città e colpite! Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia. Vecchi, giovani, ragazze, bambini e donne, ammazzate fino allo sterminio: solo non toccate chi abbia il tau in fronte; cominciate dal mio santuario!». Incominciarono dagli anziani che erano davanti al tempio. Disse loro: «Profanate pure il santuario, riempite di cadaveri i cortili. Uscite!». Quelli uscirono e fecero strage nella città. Mentre essi facevano strage, io ero rimasto solo: mi gettai con la faccia a terra e gridai: «Ah! Signore Dio, sterminerai tu quanto è rimasto di Israele, rovesciando il tuo furore sopra Gerusalemme?».
 Mi disse: «L'iniquità di Israele e di Giuda è enorme, la terra è coperta di sangue, la città è piena di violenza. Infatti vanno dicendo: Il Signore ha abbandonato il paese: il Signore non vede. Ebbene, neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere». Ed ecco l'uomo vestito di lino, che aveva la borsa al fianco, fece questo rapporto: «Ho fatto come tu mi hai comandato».

 Io guardavo ed ecco sul firmamento che stava sopra il capo dei cherubini vidi come una pietra di zaffìro e al di sopra appariva qualcosa che aveva la forma di un trono. Disse all'uomo vestito di lino: «Va' fra le ruote che sono sotto il cherubino e riempi il cavo delle mani dei carboni accesi che sono fra i cherubini e spargili sulla città». Egli vi andò mentre io lo seguivo con lo sguardo.
 Ora i cherubini erano fermi a destra del tempio, quando l'uomo vi andò, e una nube riempiva il cortile interno. La gloria del Signore si alzò sopra il cherubino verso la soglia del tempio e il tempio fu riempito dalla nube e il cortile fu pieno dello splendore della gloria del Signore. Il fragore delle ali dei cherubini giungeva fino al cortile esterno, come la voce di Dio onnipotente quando parla.
 Appena ebbe dato all'uomo vestito di lino l'ordine di prendere il fuoco fra le ruote in mezzo ai cherubini, egli avanzò e si fermò vicino alla ruota. Il cherubino tese la mano per prendere il fuoco che era fra i cherubini; ne prese e lo mise nel cavo delle mani dell'uomo vestito di lino, il quale lo prese e uscì. Io stavo guardando: i cherubini avevano sotto le ali la forma di una mano d'uomo. Guardai ancora ed ecco che al fianco dei cherubini vi erano quattro ruote, una ruota al fianco di ciascun cherubino. Quelle ruote avevano l'aspetto del topazio. Sembrava che tutte e quattro fossero di una medesima forma, come se una ruota fosse in mezzo all'altra. Muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi, perché si muovevano verso il lato dove era rivolta la testa, senza voltarsi durante il movimento.
 Tutto il loro corpo, il dorso, le mani, le ali e le ruote erano pieni di occhi tutt'intorno; ognuno dei quattro aveva la propria ruota. Io sentii che le ruote venivano chiamate ‘Turbine’. […]

 La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all'ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d'Israele era in alto su di loro. […]

 […] I cherubini allora alzarono le ali e le ruote si mossero insieme con loro mentre la gloria del Dio d'Israele era in alto su di loro. Quindi dal centro della città la gloria del Signore si alzò e andò a fermarsi sul monte che è ad oriente della città. E uno spirito mi sollevò e mi portò in Caldea fra i deportati, in visione, in spirito di Dio, e la visione che avevo visto disparve davanti a me. E io raccontai ai deportati quanto il Signore mi aveva mostrato.
 La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt'intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: «Figlio dell'uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». […] sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l'uno all'altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c'era spirito in loro. […] e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato. […]

 Al principio dell'anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d'Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Egli mi condusse là: ed ecco un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, in piedi sulla porta, con una cordicella di lino in mano e una canna per misurare. Quell'uomo mi disse: «Figlio dell'uomo: osserva e ascolta attentamente e fa' attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d'Israele quello che avrai visto».
 Ed ecco il tempio era tutto recinto da un muro. La canna per misurare che l'uomo teneva in mano era di sei cubiti, d'un cubito e un palmo ciascuno. Egli misurò lo spessore del muro: era una canna, e l'altezza una canna.

 […]

 Poi mi condusse nel cortile esterno e vidi delle stanze e un lastricato costruito intorno al cortile; […]. Misurò lo spazio dalla facciata della porta inferiore da oriente a settentrione alla facciata della porta interna, erano cento cubiti.

 […]

 Mi condusse poi verso mezzogiorno: ecco un portico rivolto a mezzogiorno. Ne misurò i pilastri e l'atrio; avevano le stesse dimensioni. Intorno al portico, come intorno all'atrio, vi erano finestre uguali alle altre finestre. […]
 Allora mi introdusse nell'atrio interno, per il portico meridionale, e misurò questo portico; aveva le stesse dimensioni. Le stanze, i pilastri e l'atrio avevano le medesime misure. Intorno al portico, come intorno all'atrio, vi erano finestre. Esso misurava cinquanta cubiti di lunghezza per venticinque di larghezza.
 Intorno vi erano vestiboli di venticinque cubiti di lunghezza per cinque di larghezza.
 Il suo vestibolo era rivolto verso l'atrio esterno; sui pilastri c'erano ornamenti di palme; i gradini per i quali si accedeva erano otto.

 […]

 C'era anche una stanza con la porta vicino ai pilastri dei portici; là venivano lavati gli olocausti. Nell'atrio del portico vi erano due tavole da una parte e due dall'altra, sulle quali venivano sgozzati gli olocausti e i sacrifici espiatori e di riparazione. […] C'erano poi altre quattro tavole di pietre squadrate, per gli olocausti, lunghe un cubito e mezzo, larghe un cubito e mezzo e alte un cubito: su di esse venivano deposti gli strumenti con i quali si immolavano gli olocausti e gli altri sacrifici. Uncini d'un palmo erano attaccati all'interno tutt'intorno; sulle tavole si mettevano le carni delle offerte.
 Fuori del portico interno, nell'atrio interno, vi erano due stanze: quella accanto al portico settentrionale guardava a mezzogiorno, l'altra accanto al portico meridionale guardava a settentrione. Egli mi disse: «La stanza che guarda a mezzogiorno è per i sacerdoti che hanno cura del tempio, mentre la stanza che guarda a settentrione è per i sacerdoti che hanno cura dell'altare: sono essi i figli di Zadòk che, tra i figli di Levi, si avvicinano al Signore per il suo servizio».
 Misurò quindi l'atrio: era un quadrato di cento cubiti di larghezza per cento di lunghezza. L'altare era di fronte al tempio.
 Mi condusse poi nell'atrio del tempio e ne misurò i pilastri: erano ognuno cinque cubiti da una parte e cinque cubiti dall'altra; la larghezza del portico: tre cubiti da una parte e tre cubiti dall'altra. La lunghezza del vestibolo era di venti cubiti e la larghezza di dodici cubiti. Vi si accedeva per mezzo di dieci gradini; accanto ai pilastri c'erano due colonne, una da una parte e una dall'altra.
 M'introdusse poi nel santuario e misurò i pilastri: erano larghi sei cubiti da una parte e sei cubiti dall'altra. La porta era larga dieci cubiti e i lati della porta cinque cubiti da una parte e cinque cubiti dall'altra. Misurò quindi il santuario: era lungo quaranta cubiti e largo venti.
 Andò poi nell'interno e misurò i pilastri della porta, due cubiti, e la porta, sei cubiti; la larghezza della porta, sette cubiti. Ne misurò ancora la lunghezza, venti cubiti e la larghezza, davanti al santuario, venti cubiti, poi mi disse: «Questo è il Santo dei santi».

 […]

 L'interno del santuario, il suo vestibolo, gli stipiti, le finestre a grate e le gallerie attorno a tutti e tre, a cominciare dalla soglia, erano rivestiti di tavole di legno, tutt'intorno, dal pavimento fino alle finestre, che erano velate. Dalla porta, dentro e fuori del tempio e su tutte le pareti interne ed esterne erano dipinti cherubini e palme. Fra cherubino e cherubino c'era una palma; ogni cherubino aveva due aspetti: aspetto d'uomo verso una palma e aspetto di leone verso l'altra palma, effigiati intorno a tutto il tempio. Da terra fino sopra la porta erano disposti cherubini e palme sulle pareti del santuario.
 Gli stipiti del santuario erano quadrangolari.
 Davanti al Santo dei santi c'era come un altare di legno, alto tre cubiti, due cubiti di lunghezza e due di larghezza. Gli angoli, la base e i lati erano di legno. Mi disse: «Questa è la tavola che sta davanti al Signore».
 Il santuario e il Santo dei santi avevano due porte ciascuno. Ogni porta aveva due battenti e ogni battente si ripiegava in due pezzi: due per un battente e due per l'altro. Sulle porte erano dipinti cherubini e palme come sulle pareti: un portale di legno era sulla facciata dell'atrio all'esterno. Finestre e grate e palme erano da tutt'e due le parti, ai lati del vestibolo, alle celle annesse al tempio e agli architravi.

 […]

 A mezzogiorno, di fronte allo spazio libero e alla muraglia di cinta, c'erano stanze e, davanti ad esse, un passaggio simile a quello delle stanze poste a settentrione: la lunghezza e la larghezza erano uguali a quelle, come anche le varie uscite e le loro disposizioni; come le porte di quelle, così erano le porte delle stanze che davano a mezzogiorno; una porta era al principio dell'ambulacro, lungo il muro corrispondente, a oriente di chi entra. Egli mi disse: «Le stanze a settentrione e quelle a mezzogiorno, di fronte allo spazio libero, sono le stanze sacre, dove i sacerdoti che si accostano al Signore mangeranno le cose santissime: ivi riporranno le cose santissime, le oblazioni e le vittime di espiazione e di riparazione, perché santo è questo luogo. Quando i sacerdoti vi saranno entrati, non usciranno dal luogo santo verso l'atrio esterno, ma deporranno là le loro vesti con le quali hanno prestato servizio, perché esse sono sante: indosseranno altre vesti e così si avvicineranno al luogo destinato al popolo».
 Terminato ch'egli ebbe di misurare l'interno del tempio mi condusse fuori per la porta che guarda a oriente, e misurò la cinta intorno. Misurò il lato orientale con la canna per misurare: era cinquecento canne, in canne da misura, all'intorno. Misurò il lato settentrionale: era cinquecento canne, in canne da misura, all'intorno. Misurò il lato meridionale: era cinquecento canne, con la canna da misura. Si volse al lato occidentale: misurò cinquecento canne con la canna da misura. Da quattro lati egli misurò il tempio; aveva intorno un muro lungo cinquecento canne e largo cinquecento, per separare il luogo sacro da quello profano.

 Mi condusse allora verso la porta che guarda a oriente ed ecco che la gloria del Dio d'Israele giungeva dalla via orientale e il suo rumore era come il rumore delle grandi acque e la terra risplendeva della sua gloria. La visione che io vidi era simile a quella che avevo vista quando andai per distruggere la città e simile a quella che avevo vista presso il canale Chebàr. Io caddi con la faccia a terra. La gloria del Signore entrò nel tempio per la porta che guarda a oriente.
 Lo spirito mi prese e mi condusse nell'atrio interno: ecco, la gloria del Signore riempiva il tempio. […]
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Quarta lacuna

Qui il racconto di Ezeqeel-Velasco si interrompe: le lacune nei testi non consentono di ricostruire con precisione la storia, ma è chiaro che il Comandante infine riacquista la memoria e torna ad occupare il proprio ruolo. I materiali che servono a riparare Argo vengono reperiti e, sempre grazie al Carro Divino di Enoch, portati alla nave ancora in parcheggio oltre il cielo di Saturno.
 Argo è rimessa in funzione, ma per motivi ignoti non si decide l’immediata partenza. Il Comandante Velasco e alcuni uomini dell’equipaggio fanno ritorno − presumibilmente ancora grazie al carro Divino − su Terra Nova, come ora viene chiamato il pianeta. Seguono poi, alquanto nebulosamente, altre avventure di Velasco e dei suoi uomini fra diversi popoli di Terra Nova. Vi sono passaggi alquanto comici in cui si descrivono gli studi compiuti dal Professor Lorenz, antropologo del gruppo, su lingue, usanze e costumi sociali delle popolazioni incontrate. Alcuni testi fanno perfino cenno ad una vicenda amorosa che avrebbe intrecciato i destini di Velasco con quelli di una fanciulla indigena. La maggior parte dei testi, però, conserva solo le ultime parti di Terra Nova, in cui Velasco racconta in prima persona la fuga precipitosa dal quel singolare universo.
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Frammento 6

Il nostro soggiorno su Terra Nova fu bruscamente interrotto da una circostanza, come dire, che ci colse un po’ di sorpresa; e benché desiderassimo ben altro congedo − oramai affezionati a quel mondo − non fu possibile agire diversamente. D’altra parte, se siamo ancora in vita, lo dobbiamo proprio a quella fuga precipitosa…

 Ma questi furono i fatti. Sin dal primo giorno in cui io e i miei uomini ci allontanammo da Argo a bordo del Carro Divino di Enoch, l’insostituibile Kano, per ingannare l’attesa del nostro ritorno, si era messo all’opera per creare una simulazione virtuale di quell’universo: un po’ come quelle che tanto tempo fa gli scienziati della Terra facevano per tentare di capire come si era potuto evolvere il nostro universo a partire dal Big Bang: stabilite le leggi fisiche, i dati di partenza e le condizioni al contorno, si dà il via al modello virtuale e si vede dove si va a finire. Questo era quanto Kano si era messo in testa di fare.

 Ebbene, un bel giorno sul visore del mio transponder vedo comparire il suo volto, più nero del solito, se così posso dire. Non tardai molto ad intuire che c’erano guai in vista.
 — Comandante, non so come dirglielo… Sa quella simulazione che stavo facendo, sull’evoluzione di questo universo? Beh, ho qui i risultati. Questo universo si trova, o meglio dovrebbe trovarsi, dato che si tratta di una simulazione, ma con un coefficiente affidabilità Russell non inferiore al 99%, prossimo ad un nodo di singolarità modale, di grado estremamente elevato nella scala Fichte e potenzialmente assai pericoloso, con rischio di instabilità metaquantica bla bla bla… »
 «Tenente Kano, si fermi un momento, non ci capisco nulla, ma si può sapere che cavolo significa tutto questo, Jacob?» sbottai rivolgendomi allo scienziato il quale, al mio fianco, aveva ascoltato tutta l’esposizione.
 — Significa che dobbiamo tagliare la corda, e alla svelta anche… fece Peanus, improvvisamente pallido in volto.
 — Ta-tagliare la corda… e perché? E quanto alla svelta?
 — Vedi, Jason, questo sarebbe un tipico “universo a termine”: si tratta di una categoria di universi i cui statuti ontologici, diciamo più semplicemente le loro leggi fisiche fondamentali, hanno un termine di validità, dopo di che l’universo non è più…
 — Ripeto: quanto alla svelta?
 — Oh, almeno cinque ore ce le abbiamo. Forse anche cinque e mezza. Minuto più, minuto meno.
 La testa prese a girarmi, vorticosamente, mentre dentro di me si formava l’immagine di una formidabile clessidra di proporzioni cosmiche in cui solo pochi granelli di sabbia, grandi come pianeti, dovessero ancora precipitare nel vuoto sottostante. Mi riscossi sentendo la voce di Peanus che mi informava di aver stabilito con Kano la procedura di rientro: risalita immediata con il teletrasporto.

 Un mese eravamo rimasti a palazzo, ospiti del sovrano: non dimenticherò mai il volto serafico e insieme autorevole di Pasc, la cui candida barba, ampia e fluente, equilibrava in un certo senso l’enormità del misterioso turbante; né dimenticherò le grazie armoniose di Erma, l’ancella che mi donò momenti di gioia intensa e furtiva. Non dimenticherò neppure gli altri: di tutti, indistintamente, serbo un ricordo carissimo, e mi addolora pensare che ora non esistano più, svaniti insieme al loro universo. Ma perché svaniti, poi? Da qualche parte nell’Oceano dell’Infinito Esistente dovranno pur esistere, no? Confesso che amo illudermi − ma forse è qualcosa più di un’illusione − che in qualche dove esista un mondo in tutto identico a quello in cui noi fummo; in cui costoro − o individui identici a costoro − continuino a vivere serbando il ricordo di noi − o di individui identici a noi. Perché ciò non dovrebbe essere? Il gioco delle infinite combinazioni, anzi, ne fa una necessità…

 A quella povera gente non dicemmo nulla: perché guastare loro quelle poche ore di vita che restavano? Non avremmo in ogni caso potuto fare nulla per loro: non avremmo potuto salvare neppure un individuo, giacché nessuno può sopravvivere al proprio universo in un altro universo. Salutai Pasc, Erma, e quei pochi che incontrammo, senza poter dare spiegazioni. Sulla nave, i miei ultimi pensieri prima del meta-salto furono rivolti al sapiente e all’umile fanciulla; e nell’istante di buio che accompagna il salto l’immagine dei loro volti attoniti e quasi increduli mi riempì d’una profonda amarezza.

Frammento 2B

[…] Saturno si era lasciato passare senza difficoltà; poi era toccato a Giove, Marte, Mercurio, Venere: uno dopo l’altro li avevamo visti tutti allontanarsi alle nostre spalle. Ora, davanti a noi − a separarci dalla Terra − il cielo della Luna. Li sentivo come la nostra Luna, la nostra Terra. Provavo la nostalgia degli antichi naviganti, e il mio cuore ebbe un balzo nel petto quando, sul grande visore, cominciarono a distinguersi nitidamente i profili dei continenti contro le masse equoree: novello Odisseo, contemplavo le spiagge amate della mia Itaca illusoria.

 […]

 Vedere una Terra che duplicava la nostra Terra non causava il mio turbamento, quanto il fatto che quel cosmo che la circondava fosse esattamente la materializzazione di un pensiero: quel cosmo era un duplicato non del nostro universo qual è, ma quale era stato immaginato dai nostri antichi sapienti. Una fantasia che prendeva corpo. Avessimo scoperto il Paese delle Meraviglie, o fossimo penetrati dell’insondabile mondo che sta dietro gli specchi, il nostro sgomento non sarebbe stato maggiore… Eppure, sapevo, anche questo era necessario. Un caso fortuito ci aveva portato a quel cosmo, quel cosmo che però necessariamente doveva trovarsi nell’Oceano dell’Infinito Esistente. Allora, forse per la prima volta, provai ciò che le religioni d’altri tempi avrebbero definito timor Dei: rispetto, devozione, meraviglia di fronte alla potenza dell’Ente.

[>>>]

 […] Non so se in quei momenti i miei compagni provassero le stesse emozioni; io comunque interpretai quell’atmosfera singolarmente quieta e trepidante come un religioso silenzio. Con la Terra ormai vicina, il pensiero dei preparativi per l’atterraggio mi riscossero da quella dolce inerzia. Un’agitazione inspiegabile mi aveva preso. Distolsi gli occhi dal vasto oblò e uscii dalla sala panoramica, dove ero rimasto solo, assorto, non sapevo neppure per quanto tempo.

 In realtà i problemi non erano affatto finiti. Tornato sul ponte di comando, udii l’amabile Guardiamarina Grubert osservare che “anche quella Luna mostrava alla Terra sempre la stessa faccia”: il che in fondo non era una novità, dato che già risultava nel modellino costruito da Peanus. Tuttavia l’osservazione, così innocente, conteneva un’implicazione che toccò all’abominevole Verdeschi di scoprire: scoppiando a ridere si fece vicino e mi sfidò a “far girare anche quella porta”: — Ho l’impressione che sia bloccata, — concluse, andandosene al trotto.
 Avrei voluto lasciarlo morire di fame sul più vicino asteroide, se non fosse per il sindacato che me l’avrebbe fatta pagare: così mi limitai a rinchiuderlo un po’ al fresco (nella cella frigorifera, insieme alle sue bistecche sintetiche), con l’accusa di essersi intrufolato in plancia senza permesso. Verdeschi aveva la rara capacità di farmi uscire dai gangheri con la sua sola presenza.
 Quello che non sopportavo, poi, era che il cuoco avesse ragione. “Mostrare sempre la stessa faccia” significa che la Luna non ruota rispetto alla propria sfera portante: una porta girevole bloccata, ecco l’allusione del cuoco. In che modo avremmo oltrepassato il cielo della Luna?

 Ero così furioso che mi rifiutai di pensarci su e incaricai Peanus di risolvere il problema. Non erano passati dieci minuti che lo scienziato si ripresentò. La soluzione in fondo era semplice. Peanus mi fece osservare che due volte al mese la Luna attraversa la sfera della Terra: in tali circostanze, allora, le interazioni reciproche fra sfera terrestre, sfera lunare e massa della Luna potrebbero originare turbolenze di campo tali da aprire un varco per il passaggio di Argo. [N.d.R. — Questo passaggio non è comprensibile nel quadro del sistema tolemaico: in esso, infatti, la Terra non ha una sfera portante, giacché si trova immobile al centro del cosmo. Si deve ipotizzare, dunque, che l’ignoto compilatore di questo testo avesse in mente un diverso schema cosmologico, con il Sole al centro del sistema: qualcosa di simile al sistema copernicano.]
 — Potrebbero anche disintegrarci, — obiettò il Tenente Kano, dando voce a un dubbio che circolava distintamente nell’aria. Peanus allora fece una smorfia e si rimise al lavoro: con i dati di cui disponevano e che continuavamo a raccogliere, lo scienziato riuscì a imbastire qualche calcolo e azzardare una previsione con un discreto margine di affidabilità. Così quando egli annunciò sorridente che le probabilità di venire disintegrati si attestavano intorno al 3%, l’equipaggio si mostrò ragionevolmente soddisfatto: tutti, tranne Verdeschi (informato nella sua prigione), al quale il risultato lasciava ancora un certo disagio. Comunque io, conoscendo la scrupolosità di Jacob, ero certo che le probabilità di successo fossero ancora superiori: di lì a nove giorni e sette ora circa la Luna avrebbe attraversato la sfera della Terra, e allora avremmo oltrepassato anche l’ultimo ostacolo.

 Nove giorni. Restammo a galleggiare nello spazio aspettando il momento, appaiati alla Luna che, nella sua esasperante fissità, si avvicinava con esasperante lentezza al rendez-vous. Non potei fare a meno di notare, al contrario, la mutevolezza così naturalmente terrestre − oserei dire così femminile − di quella seconda Terra che era la nostra meta, quel pianeta che ogni dodici ore ci mostrava una faccia diversa. Ormai le analogie si erano spinte a tal punto che non mi sarei stupito più di tanto se, scendendo su quel Nordamerica, avessimo trovato giocatori di baseball disposti sul diamante di un campo erboso e, fra essi, un ragazzino promettente dal nome di Joe di Maggio. Immaginavo che anche in quel Portogallo doveva esistere una città di nome Coimbra, dove sarei andato abbastanza fiducioso a trovare la mia bisnonna… La superficie di quella Terra era davvero identica alla nostra Terra.
 — Non esattamente, Comandante. Gli ultimi rilevamenti danno quattro isolotti in più nelle Aleutine e due in meno nelle Orcadi. Il Popocatepetl è più basso di quindici metri. E guardi un po’ qui: manca l’isola di Sant’Elena, — mi corresse l'Ufficiale alle Mappe.
 Dove sarebbe andato a morire Napoleone?

 I nove giorni trascorsero. Forti dell’esperienza passata sgusciammo nel varco senza troppe difficoltà (solo qualche sussulto e il grido del Guardiamarina Grubert) […].

 […]

 Intendevo approfittare della situazione per effettuare anche una missione esplorativa. Argo sarebbe scesa in Antartide, in cerca di quei rari minerali per le biovole; mentre un secondo gruppo, guidato da me in persona, sarebbe sceso nella valle del Nilo.

 […]

 Finalmente il modulo di atterraggio si distaccò. Ci allontanavamo rapidamente da Argo, affondando la caduta negli strati più densi dell’atmosfera, e l’aria che fendevamo si richiudeva sopra di noi nei lunghi vortici di lingue infuocate; finché la nostra nave, nella sua rotta verso l’Antartide, non ci apparve che un puntino luminoso contro lo sfondo di un cielo tramutatosi, da nero assoluto, in profondissimo blu. […] Senonché un ennesimo guaio si era già fatto incontro ai nostri destini. — Questo universo è decisamente ostile alla navigazione, Comandante, — annunciò con la consueta flemma il Tenente Kano. Peanus domandò spiegazioni, mentre io, senza attendere risposta, lanciai una rapida occhiata al visore di bordo e compresi: stavamo scendendo in pieno Mediterraneo, fra il Libano e l’isola di Cipro. — Non perdiamo tempo: al modulo di salvataggio! — ordinai.

 Di quei minuti serbo ricordi confusi, immagini tronche e annebbiate. Appeso ai paracadute il modulo venne sospinto dai venti in una zona imprecisata del Medio Oriente, dove toccammo terra fortunosamente. Dei giorni che seguirono non ricordiamo quasi nulla: col sole che ci prosciugava il cervello vagammo per settimane in lande desertiche, in preda a sete, allucinazioni, incubi e disperazione. Il calore che di giorno ci consumava spietatamente era rimpianto nel gelo della notte quando, stretti l’uno contro l’altro, senza poter dormire, con la mente torbida e inarrestabile quale torrente in piena, continuavamo a vedere sabbia e luce dilagante; mentre di giorno, agognando il gelo, se riuscivo a immaginare acqua, era acqua che evaporava nel cavo delle mani.
 Non so quante volte vedemmo, o sognammo di vedere, una carovana sul filo dell’orizzonte, piegare per venire incontro a noi, sparire dietro l’ultima duna che ci separava da loro; e noi ad aspettare invano che scavalcasse quell’ultima duna. Ma un giorno cominciai a sognare che ci avevano davvero raccolto, che avevamo trovato salvezza presso nomadi del deserto. Era un sogno persistente, che si ripeteva ogni giorno, che evolveva come evolve la vita reale. Nell’inestricabile torpore in cui ero avvolto, un barlume di coscienza restava ad avvisarmi che probabilmente ero sull’orlo della follia, forse della morte: perciò un bel mattino, al risveglio, non seppi spiegarmi perché mai mi sentissi così bene, quasi lucido, nient’affatto assetato né affamato. Trascorsero ore prima che riuscissi a comprendere che eravamo realmente in salvo. Non era un sogno. Riuscii anche debolmente a sorridere quando vidi accanto a me, dentro una tenda, Emma Grubert dormire un sonno agitato.

 Nei giorni che seguirono migliorammo rapidamente, e presto trovammo forze sufficienti per alzarci e uscire dalle tende in quel sole micidiale, a curiosare intorno, a conoscere il misterioso popolo che ci aveva salvato. […] In questo il contributo più decisivo lo portò senz’altro il Signor Lorenz, ambasciatore e antropologo dilettante, di smisurata cultura umanistica e letteraria, che in un attimo inquadrò l’organizzazione sociale di quella tribù assimilandola a quelle nomadi della Siria nei secoli precedenti l’avvento di Maometto. Avemmo poi modo di strabiliarci della sua competenza, quando egli si mise all’opera per appurare quale fosse la loro lingua: poiché costoro, nonostante gli incitamenti dell’antropologo, non parlavano abbastanza a lungo (evidentemente non avendo nulla da dire), il Signor Lorenz si vide costretto a tentare un numero incredibile di lingue, dialetti, idiomi, studiando le reazioni di quella gente ad ogni singola parola. Tano per limitarci ai più noti, egli spaziò dal siriaco al cananeo, dall’arabo all’ebraico, dall’aramaico al talmudico babilonese, dall’elamita all’accadico, dal caldeo, al medo e al partico; con minor convinzione provò anche alcuni idiomi etiopici, l’antico egizio, il turco moderno, il berbero e numerose lingue indoarie, fra cui naturalmente il persiano antico e il sanscrito. Il risultato di settimane di studi, comprensibili del resto ai soli addetti ai lavori, ci fu generosamente risparmiato; tanto più che Jacob − relativamente disoccupato in mancanza di problemi di fisica − si era fatto particolarmente suscettibile…
 I più spensierati di certo erano Manfred ed Emma: li vidi spesso gironzolare fra le tende, socializzare con quella gente e perfino giocare ad una specie di gioco alle carte con alcuni ragazzi, la sera, intorno al fuoco. Eppure fu proprio Emma a notare un particolare che in verità doveva saltare agli occhi, ma che il fervore antropologico del Signor Lorenz ci avena fatto trascurare: — Curiosamente grandi quei turbanti, non vi sembra?
 Inimicandosi Emma, Manfred osservò che su un singolarissimo pianeta, in mezzo ad un popolo misterioso, ebbene, che va a notare una donna? “Dei buffi copricapo!”
 — Emma, in fatto di moda i gusti sono gusti, — osservò a sua volta il Dottor Redi, pensando di chiudere saggiamente la questione.

 Eppure quei turbanti erano realmente troppo grandi. La sentenza dell’amico dottore non poteva bastare… Fu così che una sera, invitati a cena dal capotribù, feci tradurre dal Signor Lorenz il senso dell’osservazione di Emma. La reazione che ne seguì non era per noi neppure lontanamente immaginabile: tutti i presenti ammutolirono di colpo, la festa si spense e benché non ci licenziassero − certo per educazione e senso di ospitalità − nessuno di loro seppe più nascondere una sconfinata amarezza.

 Su quale piaga avevo messo il dito? L’ignoranza, mi dicevo, è innocenza; e tuttavia non potevo reprimere, dentro di me, un profondo senso di colpa. Fui felice di vedere, il giorno dopo, che quella gente non sembrava serbarci rancore: non sopportavo proprio l’idea di causare dispiacere a persone alle quali dovevamo tanto.
Il mistero, tuttavia, permaneva [>>>].

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